Di Maio in retromarcia sulla  Via della seta

La sterzata atlantista del premier Mario Draghi ha costretto il ministro grillino a stoppare la collaborazione con Pechino. Ma anche sull'Egitto Giggino non sa che pesci pigliare...

L' ordine, per una volta, è stato perentorio: «Dobbiamo vestirla da missione economica, coinvolgendo un po' di aziende italiane». Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio prepara l'ennesimo viaggio ufficiale in Cina a fine luglio, a Zengdhu, per incontrare in santa pace il suo omologo Wang Yi. Ma non deve sembrare un appuntamento troppo politico perché in Europa non tira più aria di fare gli amiconi del Dragone. A un anno dal festoso esordio dell'Italia sulla Via della seta, il massiccio investimento della propaganda di Pechino nel mondo, ora che al posto di un altro filocinese come Giuseppe Conte è arrivato l'occidentale Mario Draghi è scoccata l'ora della Grande retromarcia. E sulla sua personale Via di Damasco, Di Maio cerca almeno di salvare i rapporti personali (e un po' di affari) con la Cina. Anche per non fare la fine di un Massimo D'Alema o di un Romano Prodi, ridotti ormai a ripetere in ogni intervista il solito ritornello del «stiamo con l'Occidente, ma dobbiamo tenere aperti i canali con Pechino».
Ma la Cina non è l'unica spina per il trentacinquenne Di Maio. In Libia, l'Italia è finita in un angolo. Con l'Egitto, dove non abbiamo ancora nominato il nuovo ambasciatore, Di Maio non sa letteralmente che pesci prendere e dal regime di Abdel Fattah al-Sisi arrivano solo schiaffi. La guida operativa del ministero è passata dalle mani di Elisabetta Belloni, promossa al vertice dei servizi segreti, a quelle di Ettore Sequi, fedelissimo della Belloni che è arrivato sulla poltrona di segretario generale dopo aver fatto l'ambasciatore a Pechino, naturalmente. E il ministro avellinese naviga a vista, un po' tacendo (su Hong Kong e sui diritti umani, per esempio) e molto rinviando.
Proprio come nella battaglia per la guida di quel che resta del Movimento 5 stelle. Dove Di Maio aspetta che gli altri colonnelli pentastellati giubilino Beppe Grillo, non prima però che il comico genovese abbia segato le gambe a Giuseppe Conte. Replicare queste piccole acrobazie da circo a 5 stelle anche in politica estera, però, rischia di avere costi per tutti.

Il Faraone non è lui
Tra i diplomatici italiani, in questo momento, la principale preoccupazione si chiama Egitto. Come dimostra la vicenda dell'inchiesta locale sull'assassinio di Giulio Regeni (torturato e ucciso al Cairo a gennaio 2015), per il regime di al-Sisi valiamo quanto Malta. Il problema è che in Egitto lavorano, e bene, gruppi come Webuild, Eni, Saipem, Ferrovie dello Stato, Atlantia, Fincantieri e Leonardo. E l'Egitto è ormai il primo mercato estero per le armi italiane, con un fatturato che nel 2019 ha sfiorato il miliardo di euro.
Tra un mese bisognerebbe nominare il sostituto di Giampaolo Cantini alla guida dell'ambasciata del Cairo e Di Maio è incerto fra tre candidature che fanno storcere la bocca a tutta la Farnesina. La prima è quella di Natalia Quintavalle, ispettrice generale del ministero, ben vista da sinistra e ong varie e che rischia di essere il de profundis dei rapporti economici e di sicurezza, estremizzando ulteriormente la posizione sul caso Regeni. Il secondo nome è quello di Bruno Archi, 58 anni, ex senatore di Forza Italia ed ex consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi quando questi era a Palazzo Chigi. Se Di Maio lo spedisse in Egitto, Archi potrebbe verificare se davvero Ruby Rubacuori era la nipote di Hosni Mubarak, visto che al processo di Milano, nel 2012, sostenne di aver sentito Berlusconi chiedere all'allora presidente egiziano se la ragazza fosse sua parente.
Ma in ballottaggio c'è anche l'ambasciatore Michele Quaroni, l'aggiunto ai rapporti con l'Unione europea che in passato ha spinto perché l'Italia, contro la posizione degli Stati Uniti, mettesse il veto all'adozione di un programma di aiuti del Fondo monetario internazionale per risollevare l'economia egiziana. Senza i miliardi di Washington, oggi avremmo un Paese da 100 milioni di abitanti alla canna del gas, capace di provocare un'ondata migratoria verso le nostre coste ancora più massiccia di quella libica.

Rimpiangere Gentiloni e Minniti
Sembra che sia passata una vita, ma solo cinque anni fa, ai tempi di Paolo Gentiloni e Marco Minniti, l'Italia gestiva la sanguinosa transizione libica insieme all'Unione europea. Da marzo, a Tripoli c'è un governo d'unità nazionale, ma sul campo girano ancora milizie turche e russe e la bandiera degli interessi europei, in realtà, la tiene saldamente in pugno la Francia. Così che per rimontare la partita, Mario Draghi sta tentando un accordo con il presidente francese Emmanuel Macron, con il quale ha avuto un colloquio bilaterale sulla Libia, a margine del Consiglio europeo del 24-25 maggio.
Per parte sua, il 22 giugno Di Maio ha scatenato un incidente diplomatico proprio mentre il presidente del Consiglio presidenziale libico, Mohamed Menfi, era a Roma per un incontro ufficiale con Draghi e il presidente Sergio Mattarella. Il reggente della Farnesina aveva organizzato in Italia un «forum di riconciliazione» fra le tribù del Sud della Libia senza avvisare il Consiglio presidenziale; Menfi, quando l'ha scoperto, ha scritto una letteraccia al suo ministro degli Esteri, Najila El Mangoush, chiedendo di non inviare alcuna delegazione in Italia. E ha avvertito la Farnesina che «è necessario rispettare i principi di sovranità interna, osservare rapporti d buon vicinato e non intromettersi negli affari interni» della Libia.

Quelle «donazioni» di Pechino
Che Draghi sia costretto quasi quotidianamente a rimediare agli errori e al piccolo cabotaggio di Di Maio si è visto in modo plateale sulla questione cinese. Durante il secondo governo Conte, quando perfino un navigatore a vista come il sedicente «Avvocato del popolo» aveva dovuto fermare la penetrazione in Italia sul 5G di colossi cinesi come Huawei e Zte per non essere tagliato fuori dall'intelligence atlantica, la linea del ministro degli Esteri era stata quella di aspettare la caduta di Donald Trump per ricominciare a fare affari con Pechino. Un calcolo rivelatosi sbagliato, perché con Joe Biden la linea degli Stati Uniti non è certo cambiata. Poi, il 14 giugno scorso, durante il G7 in Cornovaglia è arrivato l'annuncio di Draghi, che intende «riesaminare con attenzione» il memorandum di accordo sulla Via della seta, firmato dall'Italia a Roma nel marzo del 2019. All'accordo avevano lavorato lo stesso Di Maio, con la benedizione di Beppe Grillo e Giuseppe Conte, e l'allora ambasciatore a Pechino Ettore Sequi, che ora è stato promosso segretario generale della Farnesina.
Del resto, come per l'ambasciata di Mosca, anche la sede di Pechino ha beneficiato di ampie sponsorizzazioni da parte di grandi gruppi industriali e finanziari locali che fanno molto discutere i diplomatici più esperti. Le «donazioni» sono possibili grazie alle disposizioni emanate negli ultimi anni dal ministero in materia di sponsorizzazioni e autonomia gestionale delle sedi all'estero, ma accettare fondi «privati» a Londra o a New York non è la stessa cosa che incamerarli in nazioni con problemi conclamati di democrazia economica.
Il «richiamo della foresta» cinese per il M5s resta comunque complicato da gestire. Lo scorso 11 giugno Grillo si è recato all'ambasciata di Roma per un incontro ufficiale con l'ambasciatore Li Junhua, mentre Conte si è defilato all'ultimo momento adducendo «impegni concomitanti». Di Maio ha fatto uscire una velina per dire che lui non sapeva niente. Anche perché, da quando a Palazzo Chigi soffia il vento atlantista, Di Maio va dicendo in giro che il Movimento è una forza «moderata, atlantista e saldamente all'interno dell'Unione europea». Si è visto.
Intanto, però, a gennaio 2020 Belloni e Di Maio hanno mandato a Pechino Luca Ferrari, scelta all'insegna della più totale continuità con la linea di massima apertura alle strategie di penetrazione cinese dell'Europa.

In attesa sul fiume
I prossimi mesi, c'è da giurarci, vedranno un Di Maio sempre più allineato con la nuova stagione «atlantista», sfruttando la furbizia levantina da giovane, aspirante emulo di Giulio Andreotti. E tra una nomina e l'altra di fedelissimi alla Farnesina, dove raramente come sotto questa gestione le risorse umane sono state tanto demotivate e mortificate dall'assenza di meritocrazia, l'ufficio di Di Maio è sempre più un crocevia della politica romana. Il ministro degli Esteri, capace dal 2018 a oggi di governare con lo stesso sorriso al fianco di Matteo Salvini, Andrea Orlando o Renato Brunetta, aspetta che dalla Libia grillina passi il cadavere politico di Conte. O di Beppe Grillo. O, preferibilmente, di tutt'e due. n
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