Come si rovinano film e serie in nome del politically correct
È la parola d’ordine nei corridoi dei colossi di produzione cinematografica e televisiva, ma anche tra media e social mondiali. L’ideologia «Woke», che significa letteralmente «stare all’erta», si muove contro ingiustizie razziali e di genere.
Woke diventa così una presunzione di concetto, farcita dalla sicurezza che il razzismo sia qualcosa di intrinseco alla cultura angloamericana e permei scuole, università, libri, film, serie tv, linguaggio. Ma pensare che per natura ogni essere umano occidentale sia razzista è un pregiudizio. Nel frattempo gli asioamericani, un tempo considerati minoranza, hanno superato, per livelli di reddito, i così definiti «americani bianchi». E come scrive Bret Stephens sul New York Times, «l’America ha eletto un presidente nero ormai tanto tempo fa». Insomma, l’Occidente è molto più avanti di quanto l’indottrinamento Woke voglia far percepire. Ed è stanco di farsi fare lezioni inutili da serie tv, film, podcast.
Partiamo dalla nuova Hollywood, tempio dell’entertainment. Immane la recente fatica fatta dall’Academy (raccontata solo dagli editorialisti più coraggiosi, ndr), per trovare un presentatore idoneo all’ultima serata degli Oscar. Qualcuno che fosse immacolato da tweet vagamente fraintendibili o da vecchie interviste con possibili scivoloni nascosti tra le righe. Qualcuno con rischio di scandalo infinitesimale, per intenderci. Poi la scelta è caduta su Chris Rock, attore comico.
Ma gli sforzi sono serviti a poco, perché sappiamo tutti com’è finita (a schiaffoni) con l’attore Will Smith. La natura umana rimane imprevedibile e lo scandalo è sempre dietro l’angolo. Ma è giusto che la cultura Woke (non sbagliata in termini generali) abbia una voce così censoria nell’arte? Cinema e serie tv, non dovrebbero avere la possibilità di raccontare storie al di là della morale?
Shonda Rhimes, storica firma della serie Grey’s Anatomy, dopo 15 anni di collaborazione con la Abc, è migrata verso Netflix. L’accordo milionario tra la Rhimes e Netflix, firmato nel 2017, prevedeva un pacchetto di format nuovi di zecca e contenuti multimediali pensati in ottica «Deia» (diversità, equità, inclusività e accessibilità), con l’obiettivo di migliorare la rappresentazione dei gruppi sottorappresentati nell’industria cinematografica negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Il risultato è stato, fino ad ora, una serie di prodotti a cui, a detta degli utenti stessi, sono evidenti inserimenti forzati di battute sul tema Deia.
Pensiamo a Inventing Anna, basata sulla storia dell’ereditiera Anna Sorokin (interpretata da Julia Garner), che racconta le sue truffe colossali, in una sorta di flashback, alla giornalista Vivian Kent (Anna Chlumsky). Quest’ultima diventa però la vera protagonista. La storia ben più accattivante dell’astuta influencer diventa solo uno sfondo al racconto della carriera della giornalista, vincolata alle decisioni sterili dei suoi caporedattori maschi e a una maternità che vive come la peggiore delle torture. Un tema importante, se le battute non avessero l’aspetto di essere scritte a caso, senza approfondimento narrativo, come un compito da solvere per contratto.
Polemiche anche per la serie Bridgerton, sempre della Rhimes, per l’inserimento di protagonisti afroamericani all’insegna di un revisionismo storico e sociale forzato, che pecca di inaderenza al libro Il duca e io di Julia Quinn, da cui la serie è tratta.
Tutto lecito, se Netflix navigasse in ottime acque, ma non è così. Elon Musk ha definito la piattaforma inguardabile a causa del «woke mind virus», una sorta di bug che, a suo dire, sporcherebbe le sceneggiature. Il patron di Tesla si è più volte scagliato contro il tema del politically correct e ha promesso libertà di espressione e parola sul suo nuovo acquisto: Twitter.
Pare però che colossi di mercato paghino caro il prezzo di queste lezioni sotto banco. Da qui il detto americano «Get woke, go broke», cioè «Fai lo sveglio, vai in rovina». È successo anche al remake di Ghostbusters di Paul Feig, con un nuovo team di acchiappafantasmi al femminile (con Melissa McCarthy, Kristen Wiig, Kate McKinnon e Leslie Jones). Il film ha incassato 70 milioni di dollari in meno rispetto alle previsioni. Il problema non è certo il cambiamento di sesso dei protagonisti rispetto all’originale, ma il fatto che i fan non riconoscono più la spina dorsale di storie cui sono appassionati.
Lo stesso vale per The High Republic, progetto multimediale legato alla saga di Star Wars di casa Lucas, con un team rinnovato dall’introduzione di due personaggi trans no binary. Sul portale italiano dedicato è definito da alcuni utenti «spazzatura e propaganda». Forse non sarà spazzatura, ma certo, se a Charles Bukowsky avessero limitato linguaggio e contenuti, L’amore è un cane che viene dall’inferno non sarebbe mai esistito. n
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