Il #Metoo? Per il cinema è passato remoto
Accusati, in alcuni casi colpevoli pentiti, molto spesso scagionati da indagini e inchieste ma ancora esposti allo sdegno di certa pubblica opinione. Gli artisti travolti dagli scandali del #metoo tornano in grande stile al cinema per dimostrare che l’arte è più forte della gogna social, e che a distanza di tempo e dopo aver affrontato in taluni casi vere battaglie giudiziarie si può tornare a essere solamente autori e non più imputati. Così, dopo avere riammesso di recente al grande schermo Johnny Depp, che ha sconfitto in tribunale l’ex moglie Amber Heard e si è trasformato in Luigi XV di Borbone in Jean Du Barry - La favorita del re, e dopo l’assoluzione di Kevin Spacey di cui si attende l’uscita al cinema di Control e di Geoffrey Rush, che presto sarà Groucho Marx in Raised Eyebrows, è ora la volta dei grandi registi.
Roman Polanski, 90 anni, il più discusso perché reo confesso di uno stupro avvenuto nel 1977 ai danni della minorenne Samantha Geimer, che lo ha ufficialmente perdonato nel 2017, è tornato al cinema con The Palace: una sorta di Vacanze di Natale a Gstaad, cittadina svizzera dove il regista possiede uno chalet e dove ha deciso di ambientare una feroce presa in giro della società dei ricchi e famosi a cui lui stesso appartiene. Siamo alla vigilia del cenone di San Silvestro del 1999 e nel vero hotel indicato nel titolo del film giungono una serie di ospiti stravaganti, desiderosi di placare con una bella festa l’ansia per l’arrivo del 2000 e del Millennium Bug: un anziano miliardario texano (John Cleese) con la sua giovanissima moglie, uno stronzissimo e lampadato uomo d’affari (Mickey Rourke) che pretende una camera anche se non ha mai prenotato, un gruppo di rumorosi oligarchi russi che devono custodire alcune valigie piene di soldi, e una ricca signora (Fanny Ardant) che non vede l’ora di accoppiarsi con l’aitante addetto alla manutenzione dell’albergo.
A fare i conti con le loro bizze un manager (Oliver Masucci) che cerca di rispondere a ogni strampalata richiesta con gentilezza, mentre in realtà vorrebbe strangolarli tutti. Polanski affonda a piene mani nel grottesco e nel ridicolo, tra morti dal membro in erezione, defecazioni di chihuahua, prostitute, presunti figli che si presentano dai genitori per riscuotere cassa e qualche battuta sessista che l’atmosfera culturale odierna, intrisa di perbenismo, non tollera più, come quella del vecchio texano che pretende un rapporto orale dalla moglie dopo averle regalato un gioiello.
Sempre dalle parti della commedia, ma più lieve e con venature thriller, è il riuscitissimo film di Woody Allen, 87 anni, anche lui diventato bersaglio delle femministe per le accuse di presunte molestie nel 1992 e poi nel 2013 dalla figlia adottiva Dylan Farrow, da cui è stato scagionato con un’inchiesta finita in un nulla di fatto. Coup de Chance, sugli schermi dal 6 dicembre, racconta l’incontro casuale a Parigi della gallerista benestante Fanny (Lou de Laâge) con l’ex compagno di scuola, lo scrittore squattrinato Alain (Niels Schneider), che ai tempi era invaghito di lei. I due iniziano a frequentarsi nonostante lei sia sposata con il ricco e manipolatore uomo d’affari Jean (Melvin Popaud) e, quando sboccia l’amore, Fanny inizia preoccuparsi di come potrà prenderla il marito, sul cui passato alcuni conoscenti dei coniugi avevano gettato delle ombre a causa della sparizione nel nulla del suo vecchio socio d’affari.
Mescolando un tono leggero con una trama che si trasforma presto da rosa in gialla, il film riflette su un tema caro al regista newyorkese, quello del caso che si trasforma in fortuna o nel suo contrario, già diventato oggetto di uno dei suoi film più amati, Match Point. «Alain apprezza l’influenza che il caso ha nella sua vita: l’ha osservata e vissuta, a differenza di Jean che invece ha una personalità molto più dedita al controllo» spiega Allen. «La mia sensazione è che la fortuna e il caso giochino un ruolo molto più importante di quanto le persone vogliano ammettere: a molti piace pensare che se lavorano duro, se si applicano con disciplina saranno in grado di controllare la propria vita. Ma questo è vero solo in parte, anche se affidarsi alla casualità è un pensiero che mette ansia anche a me».
Completamente differente è invece il tono di Dogman di Luc Besson, in arrivo al cinema il 12 ottobre, dopo essere stato acclamato, così come il film di Allen, alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia. Il film parte dall’arresto di Douglas (Caleb Landry Jones), un travestito sospettato di un crimine che se ne va in giro in un furgone pieno di cani. L’intervista con una psichiatra farà riemergere il suo passato di ragazzino vessato dal padre e rinchiuso in una gabbia per i cani impegnati nei combattimenti, quasi ammazzato durante un tentativo di fuga e infine liberato dai poliziotti ma rimasto per sempre paralizzato e traumatizzato per le violenze subite.
«L’ispirazione per questo film mi è venuta in parte leggendo la notizia di una famiglia francese che aveva rinchiuso il figlioletto di cinque anni in una gabbia» racconta Besson, 64 anni, tornato alla regia dopo un’assenza di quattro anni (ultimo film, Anna) trascorsi in gran parte a difendersi dall’accusa di stupro dell’attrice Sand Van Roy, per cui è stato poi assolto. «La sofferenza è qualcosa che ci accomuna tutti e l’unico antidoto contro di essa è l’amore, oltre che l’arte» dice Besson, che ha costruito un personaggio di uno strano vendicatore, fragile e gentile, disabile come sanno esserlo i supereroi, ma col superpotere dell’amore dei cani, che sono diventati gli altri protagonisti di questo film davvero originale. «Lavorare con 60 cani sul set non è stato facile» continua il regista, «non soltanto perché ho dovuto cercare di capire quali fossero le loro relazioni per mettere insieme nelle scene quelli che andavano d’accordo, ma anche perché le riprese sono state un vero caos in cui, ogni volta che gridavo “ciak, azione!” una decina di addestratori iniziavano a impartire loro i comandi mentre Caleb cercava di recitare e io di riprenderli tutti insieme...».