Il Manchester United ha annunciato il 18 dicembre l'addio a José Mourinho. L'esonero dopo sconfitte e tensioni giunge a metà della terza stagione e molti ricordano la «maledizione del terzo anno di Mourinho». Ma, guardando alla straordinaria carriera del tecnico portoghese, spicca la sua impronta, piuttosto che impalpabili sortilegi. Più la figura di un condottiero del Quattrocento che segna l'avvento della centralità della personalità sulle schiere in campo (squadre) e le comunità (tifoserie) dietro le prime. Nel suo libro Il pallone non entra mai per caso, scritto nel 2009, l'ex vicepresidente del Barcellona Ferran Soriano spiega così la scelta di Pep Guardiola come allenatore della prima squadra, e successore di Frankie Rijkaard, preferito a José Mourinho: «Mourinho è senza dubbio un vincente, ma per vincere ha bisogno di portare l'ambiente a un livello di tensione che può diventare un problema».

C'è un episodio all'inizio della carriera di Mourinho che può essere indicativo di una costante che si è ripetuta anche all'esperienza allo United. Quando Mou approda giovane al Porto dopo due ottime stagioni all'União Desportiva de Leiria, un giorno in allenamento litiga con Vitor Baia. Il tecnico 39enne ha appena sette anni in più del portiere-monumento che a Oporto ha vinto 7 campionati e giocato 80 partite in Nazionale e al quale comunque viene notificata una sospensione di un mese. «Aveva bisogno di un bersaglio per affermare la propria leadership, e quel bersaglio fui io», ricorderà, riporta il Guardian, Vitor Baia. «Allora non ne rimasi certo contento, ma oggi - dopo aver parlato con tanti miei compagni, e anche con Mourinho stesso - posso dire che era tutto un piano. Aveva bisogno di dimostrare chi era un comandare, e la sua filosofia: amici fuori dal campo, giocatori sul campo. Un mese dopo Mourinho venne da me, mi abbracciò calorosamente e mi diede il bentornato in prima squadra».

Quella squadra in due anni vince due campionati, una Coppa del Portogallo, una Supercoppa del Portogallo, una coppa UEFA e una Champions League: se questi sono i risultati del polso ferreo di Mourinho-condottiero - prima del gioco che anzi in quel momento è forse meno ossessivamente difensivista di come diventerà poi - si spiegherebbe perché il tecnico ha esportato il suo metodo anche nelle tappe successive. Diversi gli episodi analoghi: nel primo Chelsea si scaglia contro Joe Cole, non risparmia nemmeno il connazionale Ricardo Carvalho, anche se poi vorrà portarselo dietro nei tre anni al Real Madrid dal 2010 al 2013. Come un capitano di ventura in un mondo del calcio che sta rapidamente assistendo al definitivo tramonto delle bandiere. Uno schema assimilabile a episodi di altre tappe, vs Balotelli all'Inter, vs Pedro Leon al Real Madrid dove poi finisce nel mirino nientemeno che il campione del mondo Iker Casillas, Hazard al Chelsea 2.0 o Schweinsteiger o Pogba allo United stando a quanto nei mesi scorsi scrivevano i tabloid britannici.

Compattare il gruppo attorno al comandante e tutto l'ambiente. Per le tifoserie, ma anche per l'opinione pubblica può esser divisivo. E quelle tensioni «possono diventare un problema», la gestione del difficile equilibrio tra sostenitori e odiatori. I fedelissimi e gli ostili, noi vs loro, nascono fazioni, pro e contro. Lo si vede anche nelle tifoserie: a distanza di anni dal Triplete interista, la tifoseria juventina lo becca. Dopo novanta minuti di insulti a lui, alla famiglia, al suo passato, il gesto di Mourinho ai tifosi della Juventus portandosi la mano all'orecchio per dire non vi sento più quando in quattro minuti la «milizia» United si prende una vittoria che fa zittire la curva che lo ha insolentito per tutta la partita per la sola ragione che Mourinho è l'allenatore che ha conquistato con l'Inter scudetto, Champions e Coppa Italia. Antipatico perciò a tutti gli altri perché chi vince è antipatico. Nel 2010 furono i milanisti ad arrabbiarsi per il gesto delle tre dita del Triplete in occasione del match coi blancos e poi alzato a quelli del Chelsea che lo bollavano come traditore per ricordare loro i tre titoli conquistati a Stanford Bridge. O quello «Zero tituli» di bruciante sarcasmo entrato nelle antologie. O il gesto delle manette. Come un capitano di ventura, un Gattamelata o Braccio da Montone, è lui al centro della scena: è il condottiero dei suoi. Dopo aver trasformato l'Inter, la porta alla vittoria contro il Barcellona, ​​nella semifinale che apre le porte del trionfo in Champions, e corre sul prato del Camp Nou sotto i fischi di un intero stadio arrabbiato ma sconfitto, come fosse un gladiatore euforico per aver deluso la platea accorsa ad assistere allo spettacolo della sua fine.