Giacomino, il bimbo con la gambetta ostinata e il giorno che riuscì a lanciare una pallina
A 13 anni scrive alla maestra che si occupò di lui quando era piccolo. Il ricordo della tenacia e del valore del gruppo
Cara Maestra,
è il tuo Giacomino che ti parla… ricordi ancora il mio sorriso sdentato? Io ricordo benissimo il tuo, quando ti chinavi su di me per liberarmi dalla mia gabbietta d’acciaio e immergere il mio corpicino di pietra in quel mare di palline colorate su cui ogni mattina spalancavo i miei occhi, pieni di meraviglia. Ho tredici anni adesso e inizierò il liceo scientifico il prossimo anno… ci avresti mai creduto se ti avessero detto che io, Giacomo, il “gambetta-ostinata”, sarei un giorno arrivato sin alle scuole superiori, distinguendomi nella matematica e nell’educazione fisica?
Io, che fino all’età di otto anni ho combattuto contro il mio corpo bloccato, immobilizzato in un fermo immagine che mi riporta dentro la pancia della mia mamma, quando un brutto “colpo” alla testa ha reso di roccia la mia figura, ancora raggomitolata in un minuscolo mare di amore materno.
Ti scrivo questa lettera soltanto adesso, dopo dieci anni: è questo il tempo che mi ci è voluto per riuscire a tener salda nella mano destra una penna e farla scorrere sulla carta per dare forma adulta ai miei pensieri... ed è questo il tempo che è occorso al mio cuore per riconoscere nel mio passo – ancora incerto e storto – le parole di esortazione che mi ripetevi instancabile mentre mi trascinavi da una stanza all’altra dell’asilo, senza esitazione, neppure quando le tue esili braccia erano sul punto di abbandonarti e la tua mente si faceva un groviglio di pensieri velati.
Ogni giorno trascorso a scuola era un giorno di battaglia; attraversavi il cancello del cortile come un leone attraversa l’arena, e armata di passione e perseveranza iniziavi la tua quotidiana lotta. Ti scagliavi contro l’incuranza delle altre maestre che troppo facilmente si dimenticavano del mio fisico immobile, bisognoso di orologi che vanno al rallentatore e di spazi adeguati, per riuscire nell’eterna fatica del movimento. Ti battevi per garantirmi un’infanzia normale, fatta di giochi spensierati, di rincorse dietro un pallone, di inciampi e ginocchia sbucciate, di canzoncine prive di senso create solo per divertire: non c’era giorno in cui non mi prendessi per la mano buona e reggendomi la schiena da dietro non mi facessi scorrazzare per il cortile, cantandomi «Gambetta, gambetta… non fare la furbetta! Svegliati che è tardi… son già tutti andati!». Dietro quella filastrocca improvvisata riconosco soltanto ora la rabbia che ti saliva quando venivo lasciato indietro. I miei compagni già fuori in cortile, chinati a raccogliere le foglie gialle della stagione autunnale, e io ancora dentro, insieme a te, che mi liberavi dalla macchinetta che mi reggeva in piedi per farmi indossare le mie scarpe speciali: usciti finalmente anche noi, era già tempo di rientrare. Gli altri bambini che pedalavano scatenati sui loro tricicli leggeri, e noi costretti a scavalcare le poltroncine del salone che lasciavano poco spazio per il mio trono ferroso. In quello slalom disperato inseguivo i miei compagni con occhi desiderosi di unirmi a quella corsa allegra e ripetevo l’unica parola che sapevo pronunciare – «Gambetta, gambetta!» – slanciando in un movimento invisibile quella mia gambetta di legno come a correre anch’io, libero, come loro.
Ti ricordi però, Maestra, la primissima volta in cui sono diventato un “bambino vero”?
Ritrovo nella mente, proprio adesso, la lucida immagine di te che schiudi i tuoi famelici occhi in un sorriso a trentadue denti: ero riuscito nell’epica impresa di lanciare con la mano cattiva la pallina colorata che Alessandro mi aveva passato mostrandomi come tirare. In quell’istante durato un’eternità, mi sono trasformato in una fisarmonica tesa in un movimento estremo: schiena, braccia, collo, il mio intero corpo come un mantice di cartone si era schiuso lasciando entrare tutta l’aria di cui aveva bisogno per far risuonare la sua melodia: mi sono trasformato in un boato di stupore che ha attraversato l’intero asilo… che faticata, Maestra! Poi, sono crollato, come una pera cotta che si stacca dall’albero e si schianta a terra sfinita. Quanta gioia in quel momento però: anche se per così poco, per la prima volta mi ero trovato a non essere più un semplice pezzo di legno “buono-solo-per-il-caminetto”, ma un ramo pronto a germogliare! Certo è che senza Alessandro tutto questo non sarebbe stato possibile, e tu lo sapevi Maestra, tu che hai sempre creduto nella forza insostituibile del gruppo!
Ricordi quando impegnavi i tuoi bambini a riavvolgere il filo attorno al rocchetto facendo iniziare il cammino di ognuno dai suoi capi opposti? Passo dopo passo, ciascuno di essi si ritrovava, e in quel ritrovarsi scopriva il valore della collaborazione. E i palloncini che affidavi alle loro cure, chiedendogli di saggiarne la consistenza per poi passarli al vicino senza che scoppiassero? Lì c’era tenerezza, accoglienza, rispetto delle cose e degli altri.
Mi rivedo, spettatore muto, intento ad osservare Alessandro, che da quei giochi si teneva a debita distanza. Era un bambino senza parole, come me, e non perché una qualche malattia gli impedisse di parlare, bensì per scelta: non aveva niente da dire su un mondo che non conosceva ancora abbastanza e le poche parole che sapeva pronunciare non erano sufficienti per esprimere la tempesta di emozioni che lo attraversava. Lui preferiva il silenzio e in silenzio incrociare le gambe sopra la trave di legno in cortile: spalancare le braccia in un grande arco e lanciarsi in un volo immaginario nel cielo, a sorvolare tutte le difficili domande che affollavano la sua testa di bambino. L’unica persona con cui Alessandro parlava ero io, e forse perché non sapevo dire niente di più che «Gambetta, gambetta!»: nel mio silenzio aveva riconosciuto la sua solitudine e ciò lo aveva fatto scoprire meno solo.
Cara Maestra, sono trascorsi dieci anni dal tuo ultimo abbraccio, quello di addio, quello più doloroso per entrambi.
Ricordi quel pomeriggio di fine giugno quando mi hai visto apparire davanti alla porta dell’asilo, ancora ritto in piedi nella mia macchina d’acciaio? Ti è scoppiato il cuore, ci posso scommettere! La meraviglia di quell’incontro rifulgeva nei tuoi occhi marroni sgranati verso di me: riconoscevo in essi la vivacità di un tempo, eppure trattenuta da una sottile velatura grigia a me incomprensibile. Solo dopo ho conosciuto il significato di quell’ombra: nei tuoi occhi non custodivi soltanto quel naturale sentimento di commozione che ogni “fine” richiede, bensì tenevi nascosto anche un opprimente senso di colpa, verso di me che ti avevano costretto ad abbandonare per sempre. Quel virus maledetto e le difficoltà economiche seguite avevano creato l’occasione per tagliare fuori dalla scuola te, che con le tue insistenti pretese di adattamento degli spazi e dei giochi ai miei bisogni, avevi finito per farti odiare; e insieme a te anche io: avrei terminato i miei anni di asilo da solo, in una perenne corsa contro il tempo in cui sarei arrivato sempre ultimo.
Ricordi quando abbiamo corso per l’ultima volta insieme prima che ci lasciassimo?
«Gambetta, gambetta!» – una gambetta ostinata la mia, che ad ogni costo voleva esplodere dentro una gara di velocità. Il peggioramento subìto a causa dei mesi trascorsi parcheggiato nella mia cameretta, senza supporto alcuno, non mi aveva impedito di tornare ad agitarmi al tuo fianco. E sai cosa, Maestra? Da allora non ho mai smesso di correre e storto come sono quando corro in curva riesco ad essere velocissimo… da dieci in pagella! Puoi star tranquilla Maestra, Gambetta-ostinata ce l’ha fatta… adesso corre come il vento e parla che sembra un fiume di parole in piena! Gambetta-ostinata è diventato il bambino vero che sognavi. —
Alice D’Oro