I luoghi più a rischio di diventare focolai Covid sarebbero ristoranti, bar, palestre e alberghi, secondo uno studio americano che ha analizzato i dati di milioni di cellulari per due mesi nelle principali città degli Stati Uniti e li ha confrontati con quelli dei contagi, elaborando un modello sulla diffusione del coronavirus. Lo studio è pre-pubblicato con data 10 novembre sulla rivista scientifica Nature e rileva anche che la semplice riduzione del tasso di occupazione dei locali può abbattere in modo significativo il numero dei contagi: lo studio è stato infatti eseguito a partire dallo scorso marzo nell'arco di due mesi, ovvero all'inizio dell'epidemia quando negli Usa non erano state adottate in questi esercizi pubblici misure di prevenzione come il distanziamento dei tavoli, paratie in plexiglas o altro, e lavoravano alla piena capacità. 

Lo studio e i suoi limiti

Su Nature è spiegato il metodo di rilevamento: i ricercatori dell’Università di Stanford, della Northwestern University di Chicago e del centro ricerca Microsoft di Cambridge, hanno costruito un modello epidemiologico sulla base di una mole di dati di posizione anonimizzati tratti dalle app dei cellulari per stimare la velocità di diffusione della malattia. I dati raccolti da una compagnia di Denver hanno riguardavano la prima ondata dell’epidemia di Covid in 10 delle più grandi città degli Stati Uniti, tra cui Chicago, New York e Philadelphia. Hanno quindi mappato gli spostamenti ora per ora di 98 milioni di cellulari tra diversi «punti di interesse», come ristoranti, chiese, palestre, hotel, concessionarie di auto e negozi di articoli sportivi in 57.000 isolati. Non vi è però menzione di rilevamento in uffici, fabbriche, ospedali, case di riposo che nell'esperienza della pandemia hanno effettivamente manifestato focolai Covid. Comunque, quando i ricercatori hanno confrontato l’aumento di infezioni nei quartieri di Chicago tra l’8 marzo e il 15 aprile con i numeri reali del mese successivo, hanno per esempio visto che «il modello aveva previsto con precisione i numeri di casi confermati». Il modello è stato poi utilizzato per simulare diversi scenari come riaperture e chiusure di certi locali. «I ricercatori hanno trovato – riferisce Nature – che l'apertura dei ristoranti alla piena capacità conduceva all'aumento di infezioni maggiore, seguito da caffé, palestre, hotel e motel»; tuttavia è lo stesso modello matematico a suggerire che la riduzione della capacità è sufficiente ad abbattere il numero delle infezioni. Le analisi dimostrano, scrivono i ricercatori nello studio come «una piccola quota di punti di interesse sia responsabile di una grande maggioranza di infezioni e che limitare l’occupazione massima in ogni punto di interesse sia più efficace che non ridurre uniformemente la mobilità». Fra i luoghi pubblici selezionati e censiti dai ricercatori, secondo questo loro modello, è risultato un maggior aumento dei contagi - in quelli presi in esame - per ristoranti, bar, palestre, alberghi e motel (alla piena capacità). Limitando la presenza nei ristoranti al 20% della loro capienza massima — sostengono i ricercatori - i contagi si ridurrebbero di oltre l’80%. Tuttavia secondo l'epidemiologo Christopher Dye, dell'Università di Oxford, i modelli di mobilità necessitano di essere convalidati: «E' un'ipotesi epidemiologica che deve essere verificata. Ma merita di esserlo». In ogni caso, «lo studio mette in evidenza come big-data in tempo reale sulla mobilità della popolazione offrono il potenziale di predire la dinamica della trasmissione», ha detto Neil Ferguson, epidemiologico dell'Imperial College di Londra. 

Cosa impariamo davvero da questo studio

Secondo lo studio, il modello suggerirebbe anche perché i quartieri più poveri abbiano più alti tassi di infezione Covid: perché sono abitati da persone che che hanno meno possibilità di lavorare da casa e per rifornirsi visitano negozi più affollati che in altre aree. Gli alimentari dei quartieri più poveri hanno avuto, nei due mesi esaminati, il 59% di visitatori orari in più per metro quadro e vi sono rimasti mediamente un 17% in più rispetto alle soste nei negozi di altri quartieri. È la stessa presentazione di Nature tuttavia a sottolineare cautela rispetto a generalizzazioni. Se infatti i posti chiusi e affollati sembrano essere in generale «superdiffusori», un analogo metodo di tracciamento dati ha dimostrato che in Germania non sono i ristoranti una fonte primaria di infezioni, come rilevato da Moritz Kraemer che all'Università di Oxford sviluppa modelli di morbilità infettiva. Perché questa discrepanza? «Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che può essere difficile identificare la fonte di un'infezione utilizzando i dati di tracciamento dei contatti. Kraemer – riferisce Nature - afferma che saranno necessari dati di tracciamento dei contatti più dettagliati per verificare se il modello ha identificato correttamente la posizione effettiva delle infezioni». Come detto, non sono menzionati uffici, fabbriche, ospedali, case di cura e di riposo fra i luoghi pubblici tracciati nella ricerca. Uno degli autori dello studio, Jure Leskovec, dice dal canto suo che «tutti i modelli hanno un certo margine di errore, ma dal momento che le previsioni si allineano con dati empirici non c'è motivo di pensare che non funzionerebbe su scala più piccola». Si tratta in ogni caso di studi che potrebbero dare, qualora verificati e confermati, indicazioni su come gestire e perfezionare le politiche di distanziamento sociale, ha sottolineato Ferguson, senza chiudere intere filiere di attività che rappresentano fette importanti di economia e di reddito, spesso proprio per le tante figure professionali che non possono svolgere lavori da casa (camerieri, cuochi, baristi, trainer, receptionist, addetti alle pulizie, etc.) e abitano quartieri meno abbienti in un pericoloso avvitamento della crisi economica.