In questo periodo, lockdown permettendo, Pierfrancesco Favino è impegnato sul set di Tutti per 1 - 1 per tutti, seguito della commedia I moschettieri del re di Giovanni Veronesi, un nuovo lavoro dopo il successo di Padrenostro e i tanti riconoscimenti ricevuti in un 2020 che lo ha visto collezionare David di Donatello, Nastri d'Argento e Coppa Volpi. Il protagonista della cover di GQ di ottobre, però, oggi entrerà anche nelle nostre case, questa volta dal computer, per farsi narratore, accompagnato dalla musica di Brunori Sas, di uno speciale evento digitale New Humanity
L'occasione è il lancio del Calendario Lavazza 2021, ma non si tratta di una semplice presentazione. 
Il progetto è multidisciplinare, ha un risvolto di impegno sociale oltre che artistico, e si inquadra in un programma ampio nel tempo e nelle sue forme. Il calendario stesso, ad esempio, vive anche come magazine e raccolta di contributi e creazioni artistiche dedicate, che vanno oltre la fotografia. 

Pierfrancesco Favino e il suo partner musicale in scena si alterneranno alle testimonianze dei 13 fotografi che hanno scattato le immagini del calendario, così come alle voci e agli interventi degli altri protagonisti del progetto:  Patti Smith, Kiera Chaplin, Alessandro Baricco, Francesca Lavazza, Michele Mariani, Stella Jean, Carlo Ratti, Inger Ashing.  Per un racconto per emozioni, note, parole e immagini del tempo che viviamo e dell'anno che verrà, tempo che aspettiamo, da abbracciare uniti in una New Humanity.

Su quali valori si può fondare, anche ben coscienti di quello che abbiamo vissuto quest’anno, la New Humanity che sta al centro di questa serata e del nuovo progetto transmediale Lavazza?
«La prima che mi viene in mente, ed è fattiva, tanto che mi porta qui in questo momento, è la collaborazione, il fatto che da soli non si va da nessuna parte. Questa cosa è una costante della mia esistenza: penso di fare il mio mestiere perché si fa insieme ed è destinato ad altri. 
Lo spirito di collaborazione, il fatto che non si faccia da soli, è qualcosa dell’umanità, che sia vecchia o nuova, che tengo a proteggere.

Un’altra cosa che ci siamo fermati a considerare lavorando a New Humanity è che in questo momento sembra che la paura non si possa nominare, sembra che non si possa dire che viviamo un momento di disorientamento. Io, invece, credo che comunicarla e comunicarsela, la paura, avere il coraggio di fare il suo nome, esprimerla e condividerla, ne diminuisca l’effetto alienante e di isolamento. Non solo, in secondo luogo può essere una base: in questa paura e in questa fragilità probabilmente c’è il seme di qualcosa di molto bello, qualcosa di possibile, qualcosa che, abituati a una società e a un senso del tempo che sembra sempre sfuggirci, può invece generare un tempo più vicino a quello che sentiamo. 
Mi spaventa lo scollamento tra ciò che sentiamo e ciò che viviamo. Mi spaventa perché faccio un mestiere legato quasi esclusivamente all’educazione sentimentale ed emotiva. 
Tutte le volte che faccio finta di sentire qualcosa che non sento, faccio male il mio mestiere, mentre tutte le volte che riesco a entrare in contatto con dei sentimenti che possono anche essere scomodi, allora, forse, riesco a comunicare. Questo è un momento in cui secondo me è fondamentale comunicare e comunicare bene, comunicare per il bene. Riuscire a far spazio a tutto quello che veramente stiamo sentendo, secondo me, è una delle possibili strade di questa nuova umanità. Che poi è nuova perché sta accadendo qualcosa di nuovo, ma ha delle radici profondissime che stanno nel fatto che siamo degli esseri umani, con tutto quello che questo comporta».

Dal backstage dell'evento New Humanity Lavazza
Dal backstage dell'evento New Humanity Lavazza

Lo scollamento che viviamo rispetto alla realtà, in un momento così, forse può avere a che fare anche con il distanziamento, la rarefazione del contatto con gli altri che normalmente agevola l’empatia. 
Lavorando lei con le emozioni, come crede che si possa alimentare l’empatia anche da isolati?
«Credo che noi abbiamo una grandissima fortuna che forse altri paesi non hanno: il fatto che viviamo in ambito culturale estremamente ricco. Abbiamo la fortuna di essere nati e di vivere in un paese che ha, da questo punto di vista, la sua più grande materia prima. Seppur da soli, uno dei cerotti che possiamo mettere alla distanza forzata è tutto il nostro bacino culturale. 
Purtroppo “cultura” sta diventando sempre di più una parola astratta però per cultura si intende anche il cibo, si intende davvero tutto quello che abbiamo… 
Quanti pittori pensiamo di conoscere? Quanti libri pensiamo di conoscere? Quanta musica e quanto teatro e monumenti pensiamo di conoscere? Partiamo da questi ultimi: è chiaro che in questo momento pensiamo di non poterli visitare, ma questo non significa che non possiamo invece programmarci quella visita che faremo tra qualche tempo sapendone qualcosa di più. O che non possiamo vedere quel dato film che non ci siamo permessi di guardare prima, perché adesso, invece, il tempo ce lo abbiamo. 
L’abbiamo fatto durante il primo lockdown con una dimensione di distrazione e gioia maggiore, vista la novità del tempo sospeso, mentre adesso ci sentiamo costretti nuovamente a fermarci. Credo, però, che dobbiamo guardare ai paesi intorno a noi e a noi stessi: abbiamo una grande fortuna ed è che sappiamo fare famiglia, sappiamo dove poter recuperare l’idea del bello (e il bello è una speranza enorme, noi siamo circondati dal bello anche se tendiamo a dalro per scontato)».

Dal tempo sospeso e pieno di incognite del lockdown, vorrei tornare a un concetto di tempo più tradizionale, scandito dai mesi del calendario: il tempo che scorre in fogli che stacchiamo ogni 30 giorni; quello delle attese e delle scadenze che vi segniamo con x o cerchi colorati; quello delle tante note relative a ricorrenze e anniversari scritte tra le caselle, specchio della memoria e della nostra dimensione sociale (tanti amici, tante note). Che rapporto ha con questo oggetto così familiare e tradizionale, il calendario? 
«Non so se rispondo davvero con quello che vado a dire, ma… Una delle cose che ho notato di più ultimamente è come è cambiato il senso del tempo. Ho condiviso questa sensazione con diversi amici. Prima del lockdown di primavera, le giornate sembravano cortissime; iniziato l'isolamento, improvvisamente, sembrava di avere tempo per fare le cose. Usciti di casa, a maggio, siamo tornati alla concezione del tempo che avevamo prima, però qualcosa non tornava: c’era come un rallentamento, una difficoltà a mettere a fuoco le cose come le facevamo prima. 
Ecco, io penso che quel “come facevamo prima” sia l’oggetto di cui dobbiamo occuparci se vogliamo guardare a una new humanity e credo che, in fondo, la vera conquista sarebbe intendere il proprio tempo, riuscire a comprendere qual è il proprio tempo, quello giusto per fare le cose, quello adatto per farle bene, il tempo anche del caffè, ovvero della pausa (perché a un certo punto, magari, per farla meglio una cosa, hai bisogno di dimenticartela per un attimo), il tempo della consegna delle cose, il tempo della riflessione sulle cose… 
Certo, sto parlando di lusso, il tempo è il vero lusso, il tempo manca sempre e ce lo diciamo costantemente; però, credo che una delle cose che sta accadendo è che ognuno di noi inizia ad avere la percezione del proprio tempo “fisico”. E il proprio tempo fisico è diverso in ognuno di noi. 
Tantissime persone hanno scoperto che nella pausa costretta del lockdown sono state meglio, soprattutto nella prima parte. Dopodiché le preoccupazioni si sono affastellate (per un affastellarsi delle scadenze, che sono rimaste sullo stesso piano temporale senza vivere la nostra sospensione). Forse, come abbiamo finalmente buttato alcune cose, come abbiamo sistemato alcuni cassetti, come abbiamo messo a posto la nostra soffitta può essere fatto anche con le ore i minuti e i secondi che abbiamo a disposizione.
Io personalmente sto imparando che forse stavo correndo dietro a qualche cosa e non mi ricordo neanche quand’è che ho iniziato a correre. Spero di non dover più fare così, spero di avere un pochino di rispetto in più per il mio tempo interno. A proposito, ho anche notato che mi terrorizza di meno lo scorrere del tempo. In qualche caso è una specie di piacere anche solo osservarlo scorrere e non stare per forza dentro a quel tempo, con quella sensazione di dovergli stare dietro… 
Alla fine penso che il calendario sia quello interno, che ognuno di noi forse può imparare a seguire. Dopo di che è chiaro, stiamo facendo un discorso molto distaccato dalle impellenze della quotidianità; però, anche dal punto di vista del lavoro, io vedo che forse rendo meglio dedicandomi quel tempo, dedicando del tempo ad ascoltare il mio tempo. Penso che sia uno dei lussi più grandi che ci si possa regalare e che insieme possa anche essere un insegnamento possibile»

Il progetto New Humanity coinvolge diversi media, diversi tipi di professionisti e artisti, diverse tecniche di espressione. Si avverte, accanto alla ricerca di una nuova umanità, anche quella di un nuovo linguaggio, di un'avanguardia artistica. 
Avanguardia è una parola che le piace o è un concetto superato, retaggio di un altro tempo?
«Quello di avanguardia è un concetto che mi piace molto, anche se come parola la leghiamo spesso a un periodo storico ben definito. Secondo me, però, ogni momento storico, visto ciò che accade nel suo presente, chiede un linguaggio diverso. 
Noi adesso stiamo cambiando il linguaggio della nostra vita perché le tecnologie sono entrate in una maniera evidente nelle nostre esistenze ed è stata la stessa cosa quando è stata inventata la ruota. A ogni invenzione, corrisponde la necessità di un linguaggio diverso; ogni epoca ed era ha il suo linguaggio, così come un cambiamento sociale genera un cambiamento di linguaggio. 
Il linguaggio non è uno, lo generano gli esseri umani e gli strumenti che creano. 
Il linguaggio cambia: è sempre stato così e sempre sarà così. 
C’è un’altra cosa molto bella quando nell’arte, anzi nell’artigianato di chi fa creatività, si usa questa parola, avanguardia: le associazioni tra i mondi sono sempre state libere e lo sono spontaneamente, naturalmente, per cui le barriere di quello che può essere la creatività fortunatamente scompaiono. 
Nel mio mestiere non sai mai da cosa troverai ispirazione. 
Non è detto che se stai facendo un film che si ambienta nel Seicento, non troverai ispirazione da un brano metal - ultimamente sono tantissime le serie e i film che pur essendo ambientati in un’epoca storica, hanno una colonna sonora più che moderna o addirittura contemporanea -, ed è una tendenza generale che si può vedere in tantissime forme d’arte. Lo sento come qualcosa di molto eccitante, è molto attraente, è uno dei segnali di un linguaggio che si fa sempre più aperto ed è in costante cambiamento».

Il ruolo di narratore nell'evento New Humanity è solo un altro passo accanto alla creatività del mondo Lavazza, come è nato questo rapporto? 
«Il legame non è nato solo per ragioni banalmente commerciali, ma c’è un‘adesione rispetto a come si fanno le cose e in ciò che si vuole fare, Ci siamo conosciuti tanto tempo fa con Francesca, quando non c’era questo rapporto e già in quella cena ci siamo trovati d’accordo su tante cose, dopo di che la collaborazione è nata in maniera piuttosto spontanea.
Mi piace relazionarmi con quello che mi piace e permette di riconoscere nel mondo la nostra cultura. Tra l’altro questo è un brand in costante crescita, anche in un momento come questo». 

Un importante momento per tutta l'eccellenza italiana… 
«Sono particolarmente orgoglioso di essere italiano. Il concetto di Made in Italy assieme a quello di eccellenza italiana, per me, è molto importante in generale. Penso che sia una delle mie forze e credo sia una delle forze di tanti imprenditori e creativi, persone che possono in qualche modo essere di esempio. E credo che la famiglia Lavazza nella sua storia lo offra. Di questo brand mi piace moltissimo anche la dimensione familiare e il fatto che ha una tradizione, altro forte elemento di italianità. Così, come mi piace molto il suo modo di essere presente nel sociale, una cosa in cui mi sono ritrovato subito»

Chiudiamo con un caffè. Lavazza richiama subito questo rituale quotidiano e familiare e il caffè, entrati di nuovo in lockdown, ci scalda nelle nostre giornate di isolamento per quanto rimpiangendo la tazzina al bar. Che rapporto ha con il caffè e la ritualità che gli sta attorno?
«Non mi vergogno a dirlo, ma ho un rapporto, prima di tutto, di dipendenza. Per me la mattina è il caffè e credo, in questo sentimento, di essere accompagnato da milioni di persone. In più il caffè è una ritualità sociale, che sia nella colazione familiare o al bar. 
Certe volte mi domando se si va al bar per prendere il caffè o per fare due chiacchiere. Ci si va per prendere in giro il barista o per farsi prendere in giro dal barista? 
Attorno al caffè si costruisce un tempo della nostra giornata. Si costruiscono le pause, un momento dedicato a noi stessi. Il lockdown sicuramente ci toglie una parte di questo piacere, però, il caffè quella parte ce la ricorda in qualche modo. Già solo il suo odore è qualche cosa di caldo, familiare e legato nella memoria collettiva, a qualche cosa appunto di buono, caldo e personale. 
Quante persone si fanno il caffè a modo loro? Quanti modi ci sono di farsi il caffè o di chiederlo? È come se il caffè in realtà parlasse di ognuno di noi. Io la sento molto forte questa cosa, la mattina è un rituale importantissimo: svegliarsi col profumo del caffè ti rimanda a qualcosa di bello e visto che il bello è una delle ricerche fondamentali della mia vita, di questo bello, sensorialmente, fa parte anche il caffè».

Per seguire l'evento New Humanity, l'appuntamento è il 12 novembre 2020 alle 18.00 all'indirizzo calendario.lavazza.it