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L'ingegnere che guarì se stesso

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Mauro Marchionni, brillante ideatore di tanti progetti (tra cui un dirigibile cattura-vento), aveva una rara malattia cardiaca di cui nessun medico veniva a capo. Finché ha deciso di fare da solo: trattando il cuore come una pompa idraulica, ha trovato la terapia giusta. E la sua vita è tornata quella di prima.

Prima che iniziasse il suo calvario, bisogna immaginare Mauro Marchionni, ingegnere aeronautico e professore universitario ora in pensione, come un individuo mediamente in ottima salute. Degni di nota per la storia che segue sono il suo carattere smanioso di avventura e la sua capacità leonardesca di inventare marchingegni e comprendere i meccanismi più complicati. Capacità alla quale, a guardare retrospettivamente, deve il suo essere riuscito a trovare una soluzione a una rara malattia di cuore.

Un brevetto di volo, una licenza da paracadutista, gli studi all'Accademia Aeronautica di Pozzuoli, la lunga esperienza nella costruzione e nel collaudo di macchine per il servizio agli aerei in varie città, da Capodichino a Ciampino, da Milano a Roma, la partecipazione a un comitato permanente dell'Icao, l'organizzazione internazionale dell'Onu per l'aviazione civile, per studiare come diminuire l'inquinamento causato dai velivoli, non sono le sole cose che rendono fuori dal comune la sua carriera professionale. Ci sono soprattutto i progetti che ha portato a termine.

Tra questi, una sorta di dirigibile ancorato con funi a isole artificiali in mare aperto e capace di catturare l'energia sia del vento continuo e intenso a mille metri di altezza sia delle onde: una soluzione geniale in grado di generare cento volte più energia annua di una pala eolica. Altrettanto innovativo il progetto di una metropolitana fluviale a Roma, in cui i vagoni vengono ancorati a binari sul fondo del Tevere e azionati da motori elettrici. E poi molti altri, dagli autobus aeroportuali con motori sul tetto per fare più spazio ai passeggeri fino ai banchi di prova aviotrasportabili in dotazione nelle basi militari aeronautiche italiane all'estero. «A provocarmi stress cronico non è stata tanto la mole di lavoro o i frequenti viaggi, per anni, tra Roma e Montreal» racconta Marchionni «ma la lotta con la burocrazia per vedere attuati in Italia progetti che a detta di tutti i colleghi erano originali ed efficienti».

Tanto per citare un paio di casi, «il progetto del dirigibile che cattura il vento fu sponsorizzato da Fiat Avio, ma quando finalmente il finanziamento fu approvato e mancavano tre giorni alla firma del ministro, quest'ultimo dovette dimettersi». Stessa cosa per la metropolitana fluviale: il ministro lasciò pochi giorni prima di apporre la firma. «A quel punto andai in una chiesa ed esclamai: "Signore, va bene, se proprio non vuoi che i miei progetti vengano approvati desisterò dal farne altri"» scherza Marchionni. Vedere tanto lavoro e competenza sprecati non furono probabilmente di aiuto per il cuore. Fatto sta che circa sette anni fa Marchionni si mise in viaggio in moto da Roma a Londra e ritorno (a 71 anni). Non era nuovo ad avventure del genere: nel 1989, avuto notizia che a Berlino la folla cominciava a demolire il muro che divideva in due la città, si mise in macchina senza pensarci un istante per assistere a quell'evento epocale.

Ma in quell'occasione, qualcosa non andò per il verso giusto. Marchionni cominciò a provare un forte dolore toracico a riposo, gli mancava il respiro, aveva aritmia e nausea. Pensando a un infarto, chiamò un'ambulanza, fu ricoverato e poi dimesso. E lì cominciò un calvario durato cinque anni. Gli fu diagnosticata un'angina di Prinzmetal, forma poco frequente di angina pectoris, di fatto uno spasmo dei vasi delle arterie coronarie che non fa affluire abbastanza sangue al cuore, con conseguenze potenzialmente mortali.

La prescrizione del primo cardiologo non ebbe effetto e così si recò da un altro e poi un altro ancora, fino a essere visitato da una dozzina di esperti in Italia e Stati Uniti. Nel frattempo gli attacchi arrivavano ciclicamente. «Li bloccavo prendendo la nitroglicerina che mi era stata prescritta, ma era un sollievo momentaneo, un palliativo che non risolveva il problema alla radice. Passava un po' di tempo, magari solo un giorno, e l'attacco riprendeva. Oltre a tutti i rischi, la mia vita era diventata insostenibile».

Secondo i testi di medicina, l'angina instabile è di origine ignota e non esiste una cura: oltre alla nitroglicerina, all'ingegnere era stato prescritto un calcio antagonista che agiva sull'ipertensione. Siccome anche questo era inefficace, si mise a studiare. «Dissi a me stesso: il cuore è in fondo una pompa idraulica, e io le pompe idrauliche le conosco bene, perché non provare a venire a capo della questione da me?». Da un'analisi di vari testi di fisiologia vascolare, si accorse che non veniva dato peso a sintomi quali il notevole aumento alla pressione sistolica, fino al doppio dei valori normali, l'astenia dell'apparato osteo-muscolare solo durante il rialzo della pressione e l'aumento lieve della frequenza cardiaca.

«Dopo diversi mesi, dalla mia analisi fluidodinamica del cuore conclusi che un aumento improvviso di pressione sistolica può essere generato solo dalla chiusura parziale dei rubinetti arteriosi e/o di quelli venosi» prosegue Marchionni. «In particolare è molto probabile che, nel caso di attacco di angina, siano le arteriole, i piccoli vasi sanguigni che si diramano dalle arterie, quelle che si chiudono per prime e in modo improvviso».

Quale poteva essere la causa di questa chiusura? «Doveva per forza essere la produzione di adrenalina che paralizzava un certo numero di arteriole. Tanto che a me bastava un incubo notturno per farmi venire un attacco alla mattina. Dunque, pensai, l'assunzione di farmaci betabloccanti poteva disattivare i recettori attivati dall'adrenalina. Guarda caso questi farmaci vengono prescritti per l'ipertensione arteriosa, anche se non a tutti i pazienti, e in particolare non a me. Così provai su me stesso. Presi i betabloccanti e da quel momento in poi, sono passati mesi, non ho mai più avuto un attacco. La mia vita è tornata quella di una volta».

Certo, da un caso singolo non si può generalizzare, che un farmaco funzioni per tutti i pazienti. Ma la necessità di aiutare i malati, quelli nelle stesse condizioni di Marchionni prima dell'assunzione dei betabloccanti, impone di indagare, senza farsi necessariamente troppe illusioni. «Sto sottoponendo a una rivista accademica di medicina un articolo di ricerca sulla probabile origine dell'angina di Prinzmetal e sulla cura da me sperimentata con i betabloccanti, nella speranza di aiutare altri. Devo dire che i medici che mi hanno visitato non sembrano interessati a sapere che cosa ho scoperto» conclude con disappunto.

L'arte del medico è proprio questa, l'arte di «rimediare», dal latino «mederi» da cui la parola «medicus». I pazienti (medici e non) che curano se stessi non sono una rarità nella storia della scienza. Qualche anno fa lo studente di medicina, e non ancora medico, David Fajgenbaum identificò e provò con successo su se stesso un farmaco chiamato Sirolimus, dimostratosi efficace contro la rara malattia di cui era affetto, quella cosiddetta di Castleman.

Non si contano poi i casi di medicinali che funzionano per alcune patologie e vengono testati su altre dove si brancola nel buio. Per esempio la maculopatia, una crescita anomala dei capillari che danneggiano la retina. I farmaci ora in uso erano impiegati in oncologia. Furono dapprima iniettati nell'occhio senza certezza, finché vennero resi più selettivi ed efficaci.

Quando i suoi studenti terminavano un complicato progetto di ingegneria meccanica, Marchionni diceva sempre: «Adesso fatelo vedere a un calzolaio». C'era sempre qualcuno che con aria perplessa chiedeva perché, e lui rispondeva: «Esaminerà il vostro progetto da un punto di vista differente». Speriamo che i medici abbiano quella dose di modestia necessaria per riesaminare l'angina anche dal punto di vista dell'ingegnere.




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