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Il sociologo De Masi: «Non ritorniamo in ufficio. Chi ci vuole “in presenza” è solo un capo retrogrado»

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La pandemia ha colpito anche le parole e il termine smart working ha invaso il vocabolario comune. Gli italiani che lavorano da casa sono passati all’improvviso, da marzo, da poco più di 500 mila a otto milioni. Serviva il Covid-19 per fare questo balzo in avanti? Perché non si è fatto prima? E quali resistenze ci sono ancora da vincere? Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro all’Università La Sapienza di Roma, autore del saggio “Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente”, chiamato domani sera alle 21 da Ert a declinare la parola “Lavoro” nell’ambito del progetto “Etimologie”, attribuisce la colpa «all’arretratezza mentale dei capi che ritengono il potere come qualcosa di legato al territorio, e il loro territorio è l’ufficio».

Professor De Masi, sono quarant’anni che lei si batte per il telelavoro e a marzo di colpo è cambiato tutto. Eravamo pronti?

«Assolutamente no, eppure c’erano tutte le condizioni per farlo, tranne la volontà. Le tecnologie necessarie sono minime, parliamo di uno smartphone, di un pc, che oggi sono alla portata di tutti. Non serviva nemmeno la formazione perché quello che si faceva in un ufficio adesso si fa a casa. Quindi occorreva solo l’intelligenza e la spinta farlo. Il telelavoro fa guadagnare circa il 15-20% di produttività ma noi per anni abbiamo rifiutato questo aumento, che significa miliardi, non si sa perché».

Per molti c’è ancora molto poco di “smart” in una modalità di lavoro che ha solo cambiato sede...

«È vero ma tutte le ricerche prodotte in questi mesi, compresa la mia, dimostrano che si è comunque prodotto di più. L’80% dei lavoratori dice che intende continuare con lo smart working anche dopo l’emergenza, i capi dicono che la produzione non è scesa ma anzi è migliorata. Allora per quale motivo tornare in ufficio? Per lo stesso motivo per il quale non si è fatto prima: l’arretratezza mentale dei capi. Su 8 milioni di lavoratori ci sono 800mila capi, capi retrogradi che ritengono il potere come qualcosa di legato al territorio. E il loro territorio è l’ufficio».

Quindi tenerli in ufficio per controllarli meglio...

«Eppure il lavoro intellettuale, che fanno i telelavoratori, non si controlla con la quantità ma con la qualità, e quindi non c’è nessun motivo di controllo».

A lavorare da casa si è davvero più padroni del proprio lavoro? E, in accordo con i risultati della sua ricerca, quali sono i vantaggi per i lavoratori?

«I vantaggi per i lavoratori sono immaginabilissimi. Tenga conto che un numero immenso di lavoratori esce di casa e per arrivare in ufficio impiega un’ora o un’ora e mezza. In regione Lombardia - abbiamo fatto un collegamento poco tempo fa - su 3mila dipendenti la media è di un’ora e quaranta, quasi due ore al giorno a testa. Questo significa tempo, denaro, stress, maggiore possibilità di incidenti e inquinamento ambientale. Dunque, tornando ai vantaggi, c’è sicuramente questo risparmio, a cui si aggiunge la possibilità per il lavoratore di dosare il suo lavoro come vuole lui. Se il capo affida una consegna per il giorno dopo lui può svolgerlo di giorno o di notte, interromperlo per andare a prendere un caffè o il giornale, accompagnare i figli a scuola... è un altro mondo».

Dal momento che la gestione della casa e il lavoro di cura resta prettamente nelle mani delle donne, non trova che per la parte femminile sia pericoloso chiudersi in casa a lavorare fino a quando non ci sarà una distribuzione più equa dei compiti?

«Che differenza c’è se vanno in ufficio? Almeno così risparmiano il tempo del pendolarismo per andare e tornare dall’ufficio. Io, questa faccenda che il telelavoro danneggia la donna non l’ho mai capita, perché fanno le stesse cosa di prima, solo che hanno più tempo per sé stesse. In più, se c’è anche il marito in casa, si possono fare aiutare. Le donne possono cominciare a pretendere una cosa del genere».

Con lo smart working cambia la routine quotidiana e oggi, con gli uffici vuoti, bar e ristoranti dicono di aver perso un afflusso importante...

«Ma perché la gente non mangia più se lavora da casa? Non beve il caffè? Invece di prenderlo nel bar sotto all’ufficio lo prenderà nel bar vicino casa. I consumi resteranno uguali, solo che non saranno più fatti nello stesso posto. È molto meglio se produzione e consumo avvengono nello stesso quartiere perché oggi metà città è vuota di giorno e metà città è vuota di notte: la casa vuota di giorno, l’ufficio vuoto di notte con una doppia presenza di palazzi, quindi una “pacchia” per le società immobiliari e una follia per tutti noi che paghiamo il doppio. Il giorno in cui sarà fatto un po’ più di spazio in casa per lavorare si pagherà comunque di meno perché si libereranno un sacco di edifici».

C’è a chi piace andare in ufficio anche solo per “staccare” dall’ambiente casa...

«E chi gli impedisce di staccare andando a fare una passeggiata o andando a trovare gli amici, l’amante e così via? È molto peggio stare sigillati in un ufficio in cui non si può uscire. Davvero è preferibile pensare di stare tutta la vita all’interno dello stesso ufficio con il proprio capo e altri tre o quattro che non si è mai scelto? Con magari dei bagni e delle macchine del caffè che fanno schifo... mentre a casa no».

Lo smart working ci porterà a ripensare le nostre abitazioni per ricavare una sorta di ufficio tra le mura domestiche?

«Certamente chi d’ora in poi penserà di telelavorare cercherà di ricavare nella casa, o nel monolocale che sia, anche un “angolo cottura” per lavorare. Un portatile occupa lo spazio di un’agenda e lo smartphone è piccolissimo dunque per fortuna oggi per lavorare a casa è richiesto uno spazio minimo».

Circa quanti lavori potranno diventare telelavoro?

«Secondo me, su 23 milioni e 400 mila, almeno 6 milioni di persone potrebbero telelavorare tranquillamente». —




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