Scusi dottore, mi è morto il ricordo. La memoria al tempo del Covid 19
REGGIO EMILIA. La colonna dei camion militari carichi delle bare dei morti di Bergamo fra il 18 e il 19 marzo 2020. La morte di Joseph, appena sei mesi, al largo delle coste libiche, e la sua mamma che lo cercava nel mare: “I lost my baby... Ho perso il mio bambino”. Era il 12 novembre 2020.
Salvini che, innamoratissimo di Trump e del trumpismo, si cura di non dire una parola a commento della sconfitta del suo punto di riferimento avvenuta con le elezioni d’inizio novembre 2020.
Il presidente del Consiglio Conte che in dieci giorni infila tre ciofeche nel nominare i commissari alla Sanità in Calabria, come si trattasse di una pesca parrocchiale.
Non sto vaneggiando o tirando in ballo l’inconfrontabile chissà perché… Sto provando la memoria degli italiani, ovvero a che punto è il limite del ricordo e la soglia dell’emozione (o dell’indignazione, scegliete voi).
A conti fatti siamo più o meno spacciati perché a perdere sistematicamente i colpi è la dignità collettiva. Sì, quella condizione morale che ci impone di piangere o arrabbiarci, di contestare e quindi di vedere/gridare la verità.
Ecco, la dignità va sempre più attenuandosi.
E la prova dell’indebolimento delle nostre antiche capacità reattive è data dal tempo della pandemia, la quale scopre molti nervi e ne confonde altri.
Il virus – come ha sostenuto Sergio Mattarella parlando all’Anci – infatti tende a dividerci e, aggiungo, a obnubilarci. È un parola acrobatica che figura una testa fra le nubi o piena di nuvole.
Vi propongo di provare a immaginare come avremmo reagito in altri tempi alle circostanze che all’inizio ho elencato.
Non avremmo scordato la notte del lutto di Bergamo. Le immagini della colonna dei camion militari carichi di bare avrebbero impartito per sempre una lezione di rispetto e riflessione sulla “concretezza del morbo”, e non ci sarebbe nessun negazionista a sparare idiozie. Nessun negazionista ad essere ascoltato.
La morte in mare del piccolo Joseph ci avrebbe fatto ripiombare nell’angoscia di cinque anni fa. Ricordate? La stessa che provocò l’annegamento del bimbo siriano Aylan, su una spiaggia turca nel 2015. Allora dicevamo e pensavamo “mai più!”. E invece, ancora, ancora un altro, nel pieno stridore inefficace dell’“aiutiamoli a casa loro”, “prima gli italiani”.
In altri tempi e per altre coscienze la dissimulazione di Salvini riguardo la sconfitta elettorale di Trump non sarebbe passata inosservata. Anzi, per primi, i colleghi giornalisti dai vari “club” televisivi gli avrebbero posto, proposto, imposto di rispondere alla domanda “e adesso che hai da dire?”. E senza lasciargli scampo sull’epopea “dei 49 milioni dove sono finiti?”, sui rapporti con Santa Madre Russia, sulla non conoscenza dei consulenti dei fondi neri... Se non molto tempo fa i politici svezzati puntavano sulla presa delle loro capacità persuasive, oggi contano sulla fragilità mnemonica (la memoria corta) della gente.
E poi c’è la pandemia che ci confonde. Questo è un bell’alibi.
È il caso della nomina e delle relative dimissioni di tre commissari alla Sanità in Calabria in dieci giorni. Abbiamo assistito a quel fenomeno che in diverse circostanze si sarebbe chiamato “disfatta politica”, perché è attraverso la scelta delle persone per precisi ruoli e determinate azioni che si compie la politica. Conte, sbagliandone tre, ha esaurito le prove classiche. Ma che importa! Nella concitazione nel disorientamento di questa epoca di emergenze l’errore di sbaglio sarebbe da mettere in conto. No, non deve essere così: in questa epoca non sono permessi sbagli. L’epoca incerta impone determinazione ed esattezza.
Infine le scuse. Le scuse del presidente del Consiglio: “Mi dispiace per i calabresi che meritano una risposta dopo anni di malasanità. Mi assumo la responsabilità non solo del fatto che la designazione di Gaudio non sia andata a buon fine, ma anche delle designazioni precedenti”.
L’evocazione degli “anni di malasanità” significa che il problema della Calabria era lì rovente e presente da chissà quando. E le scuse sono una via d’uscita abitudinaria in un Paese che non conosce barriere fra la confessione e l’assoluzione. Amen.
E non sto a evocare la sentenza del direttore della terapia intensiva del San Raffaele di Milano, Alberto Zangrillo, datata fine maggio 2020: “Il virus clinicamente non esiste più”.
Ricordate?
Ricordate anche il commercialissimo Natale delle luci, dei cenoni, dello shopping, ora rimpianto in forma spiritual-cristologica anche dai più accaniti adoratori del Black Friday?
Italia smemorata e disamorata. Qui sta il problema, dato dall’abitudine al rapido scorrimento degli avvenimenti e delle nostre emozioni. Siamo fatti e funzioniamo come i nostri telefonini che pur avendo una capacità di contenimento di fotografie pressoché infinito, mandano gambe all’aria il senso delle immagini.
Scattiamo foto, le accumuliamo, le cancelliamo, le dimentichiamo. Troppe. Massacrano il nostro atteggiamento nei confronti dell’elaborazione del ricordo. Che è la realtà. —
stefano scansani
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