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Max Pezzali: «vi racconto la mia terra di mezzo»

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Riflessioni a cuore aperto dell'autore di Hanno ucciso l'uomo ragno. A Panorama spiega l'angoscia di essere incastrato tra due mondi (digitale e analogico) come sia difficile, a 53 anni, relazionarsi con gli adolescenti (ha un figlio di 12 anni), del sogno americano che non c'è più. E di come tutto questo sia entrato nel suo ultimo album Qualcosa di nuovo.

«Ho fatto questo disco per tradurre il mio mondo agli adolescenti» racconta Max Pezzali, in lockdown da zona rossa a pochi chilometri da Pavia. «Esattamente dove ho trascorso la prima clausura senza poter vedere mio figlio dodicenne che vive a Roma con la madre» spiega a pochi giorni dall'uscita di Qualcosa di nuovo, un album in cui si mette allo specchio per quello che è oggi: «Un cinquantatreenne incastrato in una terra di mezzo, tra il mondo digitale di cui non sono cittadino nativo e quello analogico, in cui non mi riconosco più. Partendo da queste considerazioni, non posso relazionarmi a mio figlio facendo finta di essere come lui, saltellando con ai piedi delle sneaker di tendenza o millantando di comprendere il funzionamento di TikTok» continua.

«La generazione degli adolescenti di oggi è spesso dipinta come una massa di teste vuote che ascolta la trap e vive china sullo schermo dello smartphone. Quando leggo queste considerazioni, penso al complesso d'inferiorità generazionale che ho vissuto io rispetto ai nonni che erano sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale, ai genitori che avevano vissuto la rivoluzione del '68, agli zii che erano cresciuti nell'atmosfera politica infuocata del 1977» racconta. «Io ero invece raffigurato come un ragazzino tipico dell'era del riflusso, indifferente al sacro fuoco della politica. Insomma, ogni nuova generazione viene delegittimata nel nome del "era meglio prima". Per questo, nell'album racconto come anche nei decenni passati ci fossero delle aberrazioni. Nei miei anni Settanta i genitori fumavano allegramente in auto dove si viaggiava senza cinture di sicurezza. Negli Ottanta si sfrecciava per le città in motorino rigorosamente senza casco, poi è arrivata l'eroina su larga scala…».

Erano i tempi dei pomeriggi passati nella cantina del negozio del padre fiorista con Mauro Repetto, l'altro 883. Dove il suo primo trionfale hit, Hanno ucciso l'uomo ragno, ha rischiato di rimanere per sempre un inedito. «Eravamo lì con il blocco delle cartiere Pigna in mano, ma non venivano le parole. Quel pezzo ha rischiato di essere la nostra più cocente sconfitta compositiva. In fondo, io e Mauro eravamo due outsider che si erano autoconvinti di saper comporre: nessuno ci aveva mai detto che eravamo bravi o che avevamo talento. Rispetto a quel testo la svolta fu la pausa merenda: pane, pancetta e tabasco, una roba da appendicite fulminante. Subito dopo, presi il mio blocco e mi avviai verso casa… Poi, un attimo prima di andare a cena con i miei, la folgorazione: "Hanno ucciso l'uomo ragno chi sia stato non si sa…". Una frase folle che mi ha cambiato la vita».

Erano due le attrazioni irresistibili in quel tempo: la musica e il mito americano. «Un mito che adesso è molto appannato» afferma Max. «L'immaginario musicale, cinematografico e culturale dell'America dei viaggi nei grandi spazi, della Monument Valley, di Bruce Springsteen che racconta di una classe operaia in cerca di riscatto, non esiste più. In questi anni l'America ha smesso di essere un faro super partes e si è presentata come un luogo polarizzato e divisivo. Non è più l'amica e la garante dell'Europa. Detto in poche parole, è molto più sola».

A proposito di solitudine: doveva essere l'estate della sua prima volta a San Siro con due concerti sold out, quella del 2020… «Tutto rimandato al 2021 anche se il tasso di imprevedibilità di questo tempo non regala certezze di nessun tipo. Io ci credo e penso positivo. L'obiettivo del mio lavoro è aggregare le persone, farle cantare tutte insieme nello stesso spazio, ma il virus va esattamente nella direzione opposta e ha messo in ginocchio mezzo milione di persone che lavorano a vario titolo nello spettacolo, partite Iva e cooperative di lavoratori per cui non sono previsti ammortizzatori sociali degno di questo nome».

Si racconta senza maschere nelle interviste così come nelle canzoni, Pezzali, che fin dagli esordi ha sempre mostrato un'attitudine naturale a immortalare nelle strofe l'istante, il momento presente. Il senso del tempo (titolo di uno dei brani di Qualcosa di nuovo) è una linea invisibile che attraversa le nostre esistenze, il ritmo che bisogna avere nella vita per capire quando è il caso di fermarsi.

Che cosa non si può più fare dopo i cinquant'anni? «Tante cose… Per come la vedo io, giusto per fare due esempi, broccolare una donna sotto i 35 anni e andare in discoteca. Quando vedo i miei coetanei seduti al tavolo del privé con la camicia sbottonata fino all'ombelico e la bottiglia di champagne, mi chiedo: ma perché?».




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