Ricordi di cronista / 24 anni fa nella villetta dell'omicidio Bonacchi. Un cadavere e un coltello messo a scolare nell’acquaio
Faceva freddo quel sabato mattina alla Ferruccia, l’umido della Piana entrava nelle ossa, sulla Fiorentina c’era anche un po’ di nebbia. Del resto l’Ombrone è proprio lì dietro, d’inverno le piene sono minacciose.
Era il 10 febbraio del 1996: già prima delle 8 era arrivata una telefonata di un amico di famiglia: «Vieni alla Ferruccia che c’è qualcosa di strano, è morta la Romana, pare sia caduta dalle scale».
Altro che scale, povera Romana. Aveva aperto la porta al suo assassino, forse un’assassina. Ma ancora nessuno sapeva cosa potesse essere accaduto, i carabinieri avevano messo la fettuccia bianca e rossa, aspettavano che il magistrato arrivasse per entrare. Anche se i soccorritori erano già stati dentro, prima che venissero richiamati, abbastanza per cancellare un bel po’ di prove. Perché alla Ferruccia nessuno poteva immaginare un delitto. Era impensabile un omicidio con 27 coltellate fra la chiesa e il circolo “La Tranquillona”, fra il camposanto e la parrucchiera, fra persone che si conoscono e si vogliono bene.
Alle 9 arriva Rossella Corsini, la regina della procura di Pistoia, sostituto procuratore dal grande fiuto e grande umanità. Donna tutta d’un pezzo, che un male si è portata via a poco più di 50 anni. Mi guarda come se fossi invisibile, entra. Lei, un paio di agenti di pm, un carabiniere. Mi accodo in silenzio, se sono così invisibile, penso, nessuno mi noterà. In terra c’è Romana Bonacchi, coperta da un lenzuolo, la scoprono per un attimo, è girata a testa in giù, addosso un golfino rosa, intriso di sangue.
A dare l’allarme era stata la Meri. La parrucchiera del paese, quella che alla Ferruccia sa i fatti di tutti, più del parroco. Perché Romana era un’abitudinaria, la sua vita era scandita da poche certezze, che non cambiava mai: una visita al camposanto, la domenica alla messa nella chiesa di San Filippo e Giacomo, una sera, non più di una, al circolo “La Tranquillona” con un paio di amiche, sole come lei, per una pizza. E la parrucchiera per la piega il sabato mattina. Non fissava mai, ma con Meri c’era un rituale non scritto: si sentivano il venerdì sera, si vedevano il sabato mattina, ogni settimana. Quel venerdì sera, però, Romana non aveva risposto al telefono. Forse era già morta, l’autopsia dirà poi che il decesso era avvenuto fra le 20 e le 22. E Meri Paolieri, quando non la vede il sabato mattina, va a bussare a casa, poi chiama i vigili del fuoco, che sfondano la porta del numero 135 di via Ceccarelli. Trovano il corpo e avvertono i carabinieri.
La Corsini nel suo sopralluogo è scrupolosa. Non ci vuole molto a trovare l’arma del delitto. Un coltello da cucina di quelli che si tengono nel ceppo di legno. Chi l’ha uccisa l’ha lavato e messo a scolare con la punta in basso nell’acquaio, gesto femminile, noi uomini siamo assai meno ordinati. Così come le 27 coltellate sferrate sulla schiena della povera Romana, di cui solo un paio davvero letali. Una sequenza terribile di rabbia, non di potenza, uno sfogo con le lacrime agli occhi più che la fredda determinazione dell’assassino. «L’ha ammazzata una donna» dice la pm sicura, gli altri annuiscono, ma il corpo è già stato girato e un po’ pulito dai soccorritori, qualche prova è stata cancellata. Non è una scena da Csi, in quella stanza siamo in tanti, forse troppi, altri sono passati prima.
Al piano di sopra c’è la camera, ordinata ma piena zeppa di oggetti. Sul comodino ecco la foto di Romana: vestito nero, camicia bianca. La prendo, esco, fuori c’è Lorenzo Gori, il nostro fotografo: «Scatta, muoviti, è la vittima». Poi la rimetto al suo posto.
In un attimo abbiamo qualcosa di unico, per il giornale. Ma la mossa mi costa cara: quando rientro la magistrata realizza chi sono, mi caccia, pur senza perdere in gentilezza: «Venite a trovarmi nel pomeriggio, in procura». Già, però, sono evidenti i principali dubbi che, in 24 anni, nessuno è stato capace di sciogliere. Non ci sono segni di effrazione, Romana ha fatto entrare il suo assassino, lo conosceva. Non l’avrebbe mai fatto con un estraneo, la casa ha più allarmi e serrature di una banca. E chi l’ha uccisa non ha rubato nulla, sul comodino c’è ancora un anello con diamante. Lei ha un patrimonio importante, fra case e terreni, allora stimato in 4,5 miliardi di lire (oltre 2 milioni di euro di oggi), ma non ha parenti, se non una zia, suor Tecla, che eredita e lascia tutto al convento. Un delitto passionale? Una vendetta per usura? Piste seguite e poi cadute, finché il tempo non ha cancellato il ricordo di Romana. Almeno finora. —