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Январь
2021

Sensi di colpa e nuovi propositi

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Questo articolo è pubblicato sul numero 2 di Vanity Fair in edicola fino al 20 gennaio 2021

Nei primi giorni dell’anno nuovo mi gira sempre in testa quella frase di Dostoevskij che dice: «Nonostante tutte le perdite che ho subito, io amo ardentemente la vita, amo la vita per la vita, e, davvero, è come tuttora io mi accingessi in ogni istante a dar inizio alla mia vita. E non riesco tuttora assolutamente a discernere se io mi stia avvicinando a terminare la mia vita o se sia appena sul punto di cominciarla: ecco il tratto fondamentale del mio carattere; e anche, forse, della realtà». È bello ritrovarsi nuovi nuovi, in questi primi giorni freschi in cui un po’ fingiamo che quest’anno non cadremo nella trappola dei buoni propositi e un po’ li coltiviamo. Il mio quest’anno è uno solo: «Fanculo ai sensi di colpa».

Ci ho messo una trentina d’anni a elaborare quelli verso i miei genitori, e ancora non ho finito. Su quelli che riguardano figli ed ex mariti sono al lavoro. Voglio qui simbolicamente condividere con voi almeno una vittoria piena, un punto a mio favore con cui iniziare l’anno nuovo: la vittoria sul senso di colpa per quanto nei mesi del primo lockdown, tra poco sarà un anno, io sia stata bene. Mi sono spiegata questa cosa in tanti modi e ne ho scritto anche qui: forse il privilegio di aver un lavoro che si può fare da soli alla propria scrivania, di non avere figli piccoli di cui doversi preoccupare troppo, forse l’avventura, che da narratrice sempre mi interessa, di un posto in prima fila dentro a un dramma – a marzo quello della Lombardia senza dubbio lo era –, forse quel residuo d’ansia che mi fa essere più rilassata se non devo per forza socializzare con persone nuove come capitava di fare nella vita normale.

Ma se io mi assolvo, signor giudice, per il mio non pensare all’anno appena concluso come a un brutto anno, è soprattutto perché ho finalmente capito cosa ci ho trovato di profondamente familiare: io dentro a un lockdown ci sono cresciuta.

Quando stavo a Ferrara coi miei io non sapevo che l’isolamento dentro al quale la combinazione tra l’ansia ossessiva di mia madre e i nebbioni padani mi facevano crescere non era poi così normale: ci stavo e basta. Dai cinque ai quindici anni, passati prevalentemente sul divano, ho letto tre volte tutti i libri di casa e certi pomeriggi che non avevo più niente da rileggere prendevo l’enciclopedia Motta che mio padre aveva comprato a rate e scorrevo beata l’ultimo volume, quello con le parole da Tredi a Zyg. Credo di essere stata una bambina molto felice, dentro al mio lockdown personale (sopra, a 8 anni). E dato che come scriveva un altro russo, Tolstoj, chi è felice ha ragione, credo sia per quello, oltre alle cose che ho considerato prima, che non riesco a unirmi al coro di chi saluta come orribile l’anno appena trascorso. Mai come quest’anno abbiamo imparato sulla nostra pelle quanto sia sensata quella celeberrima preghiera del teologo Reinhold Niebuhr che dice: «Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscerne la differenza. Vivendo un giorno per volta; assaporando un momento per volta; accettando la difficoltà come sentiero per la pace».

 

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