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Январь
2021

Mario Lenzi, un vero maestro che non parlava mai delle sue “medaglie”

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Faceva un gran caldo quella sera di fine giugno 1995 a Milano e io sudavo, ma non era a causa della temperatura quanto, piuttosto, per l’emozione. Di lì a poco sarei stato chiamato a ritirare il Premiolino, prestigioso riconoscimento del giornalismo italiano, e ancora non riuscivo a capacitarmi di come potessi essere lì, sulla Terrazza Martini, tra volti e nomi che fino ad allora avevo conosciuto solo in tv. Avevo poco più di trent’anni, dirigevo il quotidiano la Provincia Pavese e la mia candidatura era stata votata da una giuria composta da personaggi come Gaetano Tumiati, Enzo Biagi, Chiara Beria di Argentine, Maurizio Chierici… Contavo i minuti che mi separavano dalla premiazione, quando mi sentii prendere sottobraccio e al mio fianco si materializzò Enzo Biagi. Proprio lui, da sempre uno dei miei miti. «Sei il più giovane della serata, a quanto pare» mi disse sorridendo, «ma non è mica il caso di montarsi la testa, eh! Il tuo maestro, alla tua età, aveva già diretto un paio di giornali, scritto un libro e combattuto tra i partigiani».

Quell’approccio mi aiutò a sciogliere la tensione e fu così che, con mia grande sorpresa, scoprii come Enzo Biagi conoscesse molto bene Mario Lenzi: entrambi partigiani, entrambi straordinari giornalisti e uomini di cultura, condividevano l’amicizia con l’editore Carlo Caracciolo e una grande passione per la cronaca che diventava testimonianza dei fatti. «Ho scritto la prefazione al libro di Mario sul Vietnam» mi disse a un certo punto Biagi, accorgendosi immediatamente che io, di Lenzi, ignoravo le corrispondenze di vent’anni prima per Paese Sera, unico giornalista occidentale tra i vietcong.

Ignoravo quasi tutto, potrei dire oggi, come del resto la gran parte di quelli che pensavano invece di conoscerlo bene. Perché Mario Lenzi, tra le molte qualità, ne aveva una che a volte sembrava rasentare lo snobismo: di sé stesso parlava il meno possibile, e soprattutto non parlava mai delle sue “medaglie”.

C’è una foto che lo ritrae a 17 anni mentre nel luglio del ’44 sfila a Livorno, calzoni corti e fucile in spalla, nella liberazione della città con i partigiani e gli alleati. È un’immagine su cui altri avrebbero costruito una carriera. Lui non l’ha mai mostrata ed è venuta fuori solo pochi anni fa, ripescata da un vecchio archivio. Negli stessi anni, gli ultimi della sua vita, decise anche di scrivere il libro “O miei compagni”, in cui raccontava la sua gioventù a Livorno, la guerra e la Resistenza. Un libro che mi fece leggere in bozze con il pudore di chi affida qualcosa di estremamente prezioso a una persona sì cara, ma chissà quanto capace di comprendere davvero – tra le parole – la sofferenza di certi ricordi. Mi accorsi, una volta di più, che nei molti anni passati insieme nel Gruppo Espresso, avevo perso una grande occasione: quella di fargli raccontare la sua vita, della quale ogni tanto mi aveva regalato degli squarci, memorie e piccoli aneddoti, quasi sempre legati a persone con le quali condividevamo un rapporto: Carlo Pucciarelli, Stefano Petrovich e Filippo Augusto Carbone, e poi Alfredo Del Lucchese, Livio Liuzzi, Gianfranco Pierucci, Giuseppe Angella e i molti altri che – dopo l’esperienza al Tirreno a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 – Mario Lenzi aveva sempre portato con sé.

Carlo Caracciolo lo definiva il livornese meno labronico che avesse mai conosciuto, e in questo giudizio c’erano l’ironia e il divertimento di chi amava tantissimo quel particolare spirito toscano ma poi apprezzava la lucida razionalità e l’approccio calvinista al lavoro. Un modo di concepire l’impegno che Lenzi aveva mostrato durante la sua direzione del Tirreno, e poi nell’impresa di costruire la catena Finegil dei quotidiani locali, una delle gambe su cui camminava (anzi, correva) l’allora Gruppo Espresso. Negli anni in cui ho avuto la fortuna di lavorare al suo fianco nella direzione editoriale ho imparato moltissimo, con la serena consapevolezza che la sua visione delle cose e degli uomini era, e sarebbe stata, inarrivabile. Egli era così convinto che da chiunque si possa trarre il meglio, che un giorno gli chiesi se oltre a essere profondamente comunista non fosse anche credente, perché una tale fiducia nell’essere umano l’avevo trovata solo nella Bibbia. Mi rispose che la Bibbia era ancora una delle migliori letture in circolazione e che se un giorno ne avesse avuto la possibilità, avrebbe voluto discuterne alcuni passaggi con l’Autore.

L’ironia gli consentiva di trarre una morale divertita da quasi ogni fatto. Nell’agosto del ’90 mi spedì a Praga per analizzare un quotidiano che Carlo Caracciolo, Eugenio Scalfari e Piero Ottone avevano già visto ed esaminato ritenendolo meritevole di una possibile acquisizione. L’anno prima era caduto il Muro di Berlino e in tutta l’Europa dell’est soffiava il vento della perestrojka. L’Occidente vi si affacciava con l’idea di fare affari. Ottimi affari. «Carlo ed Eugenio vogliono comprare quel giornale, Piero è entusiasta» mi spiegò Lenzi, «ma loro non sono comunisti e io sì. Io, i miei compagni di quelle zone li conosco bene. Vai e cerca di capire se la redazione è davvero così giovane e talentuosa come ci raccontano». In effetti i giornalisti erano in gran parte giovani e molto simpatici. C’era nell’aria una voglia di libertà che sfociava in serate goliardiche piene di racconti divertenti. Era in atto quella che è stata poi definita la “rivoluzione di velluto”, con la sensazione che il mondo – quel mondo – stesse veramente voltando pagina.

Fu durante una di queste serate che strinsi amicizia con una giovane redattrice che si occupava anche della segreteria e lei, in un empito d’affetto, mi passò un elenco che fino ad allora non era mai affiorato nello scambio ufficiale di documenti utili alla trattativa per l’acquisizione della testata. Erano una settantina di funzionari di partito che – inquadrati come giornalisti e collaboratori – venivano retribuiti dal giornale ma in redazione non si erano mai visti neanche di sfuggita. Un costo fasullo ma pesante che sarebbe stato trasferito pari pari all’acquirente, che poi – vista la situazione geo-politica – difficilmente avrebbe potuto sgravarsene o tirarsi indietro.

Della mia relazione con allegata la lista dei 70 “finti giornalisti” non seppi niente per alcune settimane. Poi un giorno mi chiamò il presidente, Carlo Caracciolo, e parlando del più e del meno volle sapere come era andata a Praga. Feci un sobrio riassunto e citai la relazione che avevo dato a Lenzi. «Più che una relazione, è stata un colpo basso» commentò Caracciolo, aggiungendo però che avrei avuto un premio, perché avevo evitato al Gruppo un grave incidente. «A dire il vero sulle prime volevamo licenziarti, perché di quel giornale di Praga ci eravamo proprio innamorati» ridacchiò il presidente, «ma a quel punto Lenzi, per difenderti, ha proposto di inviare te come editore incaricato con il mandato di licenziare i 70 finti giornalisti. Così, se poi lo ripescano nella Moldava – ha detto Mario – avremo anche un martire…». Ecco, questo era Mario Lenzi. E oggi, a dieci anni dalla sua morte, la fortuna di averlo conosciuto è pari solo al rimpianto per non avergli potuto dire grazie tutte le volte che avrei dovuto. —




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