Il Friuli è come una casa spoglia all’esterno che nasconde nella corte la sua bellezza
Salvo non mi trovi davanti un Henry Higgins, quello del Pigmalione di Shaw, che subito m’individua, quando dico Friuli percepisco i pensieri di chi m’ha chiesto di dove sono. Di quell’angolo d’Italia mezzo tedesco e mezzo slavo, freddo e montuoso, abitato da gente dura e di poche parole: lavoratori, però. Finché resta un pensiero, ma se comincia a parlare di friulani, magari con i soliti stereotipi, mi viene spontaneo chiarire: «Siamo l’etnia geneticamente più bastarda della nazione».
Di solito c’è smarrimento e io aggiungo, pietoso: «Ho detto geneticamente non etnicamente. In millenni da noi sono passati in molti, alle volte insediandosi altre razziando. Dai veneti ai celti, dai romani ai goti, poi i longobardi, i franchi, gli ungari, i tedeschi, gli slavi e persino i turchi».
L’altro: «Ma etnicamente?». Io: «All’inizio deve essere stata dura per gli indigeni cui Roma ha sottratto le terre migliori per darle ai veterani. Poi con la fusione prima carnale e poi sociale in un unica famiglia, con il mescolare le lingue in quella koinè così poco amata dall’Alighieri e, soprattutto, con tutti uniti e tesi ad avere il minor danno possibile da nuovi occupanti, s’è andata formando un’orgogliosa friulanità». «Sono un po’ confuso» dice, obbligandomi a una spiegazione.
«Sono nato in un paesino della pianura friulana. Contadini con piccole proprietà frazionate, da sopravvivenza. Se lei ci venisse e ignorasse le villette a tumulo, quelle con la collinetta davanti all’ingresso, si accorgerebbe che le vecchie case, in gran parte attaccate l’una all’altra per risparmiare un muro maestro, sulla via hanno facciate senza orpelli. Solo un portone, qualche finestra con inferriata.
Ma varcando quel portone si troverebbe in corti dove la bellezza non manca. Una bellezza celata, a far credere al passante che in quelle case ci sono solo sassi e miseria». Comprende: «Un’autodifesa, un tenere lontano i razziatori». Annuisco: «Proprio così, traslata nel modo di essere. Regole fisse: solidarietà assoluta, mai esibire ricchezza, mai ostentare i sentimenti.
Faccenda dura ma indispensabile alla sopravvivenza». Asserisce: «Lo dice con orgoglio?». Rispondo: «Forse, ma per me è stato anche un problema. Sapesse quanto ho faticato ad abbracciare le persone più care, a dire che le amavo, a non considerare \loro successi semplici doveri. Già, quella friulanità iniettatami alla nascita mi ha anche tolto». Mi guarda con una vena di compassione. Voglio rassicurarlo: «Comunque non è più un problema. Sono cose quasi estinte, solidarietà compresa.
Hanno iniziato a morire negli anni Sessanta. Con i bês che hanno mutato il “noi” in “io”, che hanno spinto i più a pensare che un bel conto in banca equivaleva a non avere più bisogno di nessuno, neppure di Dio. «Peccato» dice «allora Pasolini è stato profeta».
«Già, Pasolini notava la scomparsa delle lucciole e dell’innocenza; pure io, assieme alle risate e ai canti delle ragazze che a maggio tornavano dal rosario. Però miseria e lavoro da bestie facevano parte del pacchetto, ed erano componenti poco gradevoli». Domanda finale: «Ma allora si sente o no friulano?» Risposta: «Certo, abito in Friuli e parlo friulano, ma la mia friulanità ormai è una maceria». — i(4-segue)
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