La politica estera di Draghi pro Usa (e Russia) che chiude alla Cina
Quale sarà la politica estera del governo di Mario Draghi? Il discorso con cui il premier ha chiesto mercoledì la fiducia al Senato è in un certo senso disseminato di elementi interessanti. Elementi che, se da una parte ribadiscono quanto già noto, dall'altra aprono a scenari potenzialmente significativi.
"Questo governo", ha dichiarato Draghi, "nasce nel solco dell'appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all'Unione europea, e come protagonista dell'Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori". Parole, queste, che non costituiscono certo una novità. E' arcinoto che l'ex presidente della Bce sia una persona stimata ai vertici di Bruxelles, così come è sempre stato fuori discussione il suo legame con ampi settori della politica e dell'economia statunitensi.
E' abbastanza chiaro che, al di là di un programma rivolto verso l'esterno, con quelle parole Draghi abbia voluto anche dare un duplice segnale in seno alla propria maggioranza: disinnescare eventuali tentazioni euroscettiche e –soprattutto– manifestare discontinuità rispetto al governo giallorosso in materia di rapporti con la Cina. Solo un breve passaggio del suo discorso ha infatti citato la Repubblica Popolare. E non certo in termini lusinghieri. "Seguiamo […] con preoccupazione l'aumento delle tensioni in Asia intorno alla Cina", ha detto. Una differenza non di poco conto con quanto affermò Giuseppe Conte nel discorso che pronunciò alla Camera per la sua ultima fiducia: un discorso che non valorizzò soltanto i legami tra Roma e Pechino, ma che lasciò addirittura intendere –non senza successive polemiche– una sorta di equiparazione tra Cina e Stati Uniti. Per Draghi, l'ancoraggio atlantico è un principio indiscutibile. Quello che sarà interessante analizzare è come il premier declinerà questa forte convergenza con gli americani rispetto alle dinamiche interne all'Unione europea. Da una parte, il suo auspicio è chiaro. "L'avvento della nuova amministrazione Usa", ha dichiarato, "prospetta un cambiamento di metodo, più cooperativo nei confronti dell'Europa e degli alleati tradizionali. Sono fiducioso che i nostri rapporti e la nostra collaborazione non potranno che intensificarsi". Il fatto stesso che si dica "fiducioso" evidenzia tuttavia che non c'è un'assoluta certezza.
Per quanto molti abbiano sostenuto che l'arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca farà tornare il sereno nei rapporti transatlantici, la situazione si rivela più complessa. Ricordiamo che turbolenze si fossero registrate già ai tempi della presidenza di Barack Obama: turbolenze che lo stesso Draghi vide, per così dire, da vicino, essendo lui diventato presidente della Bce nel novembre del 2011. Turbolenze che, pur in contesti mutati, non sembrano tuttavia affievolirsi. La nuova amministrazione americana non ha affatto apprezzato il Cai: il recente trattato sugli investimenti tra Unione europea e Cina, fortemente sostenuto dalla Germania. E attriti con la Germania si registrano attualmente anche sul fronte russo, visto che Washington non ne vuole sapere di accettare il gasdotto Nord Stream 2. Ecco: proprio per la sua lunga esperienza alla Bce, è impensabile che Draghi possa credere realmente a una sorta di facile irenismo tra le due sponde dell'Atlantico. Si tratta di un rapporto complesso, all'interno di cui l'Italia dovrà riuscire a districarsi.
Della consapevolezza di questa difficoltà sono affiorati piccoli segnali anche nel suo discorso di mercoledì. Chi lo conosce sostiene che il premier abbia rapporti saldi sia con gli Stati Uniti sia con la Germania. Il che, da quel che abbiamo visto, potrebbe apparire ossimorico. E probabilmente lo è. Ma si tratta anche di una opportunità interessante in chiave geopolitica. Perché Draghi, vista la stima di cui gode in entrambe le cancellerie, potrebbe efficacemente ritagliarsi il ruolo di mediatore tra Washington e Berlino. Sotto questo aspetto, si scorge un passaggio interessante nel suo discorso. "L'Italia", ha detto, "si adopererà per alimentare meccanismi di dialogo con la Federazione Russa. Seguiamo con preoccupazione ciò che sta accadendo in questo e in altri paesi dove i diritti dei cittadini sono spesso violati". Un'affermazione che di fatto mette insieme le posizioni divergenti che, sulla Russia, oggi presentano Stati Uniti e Germania: severità sul piano dei diritti umani, ma pragmatismo sul fronte commerciale. Una posizione che, pur non rinunciando a evidenziare criticità, non chiude pregiudizialmente a Mosca. Una posizione tanto più significativa, soprattutto alla luce della netta chiusura –questa sì– che (lo abbiamo visto) il premier ha invocato nei confronti di Pechino. E' del resto convinzione di vari studiosi realisti che, anziché drasticamente ostracizzata, la Russia vada sganciata dall'orbita cinese, sfruttando possibilmente gli attriti (più o meno sotterranei) che si registrano tra Mosca e Pechino. Insomma, la (circoscritta) apertura alla Russia può essere letta in due modi (non necessariamente alternativi): tener pragmaticamente presenti le necessità commerciali italiane e, al contempo, proporre un'opera di mediazione tra Berlino e Washington.
Sarà anche in questo quadro che Draghi dovrà confrontarsi con l'asse franco-tedesco. "Proprio la pandemia ha rivelato la necessità di perseguire uno scambio più intenso con i partner con i quali la nostra economia è più integrata. Per l'Italia ciò comporterà la necessità di meglio strutturare e rafforzare il rapporto strategico e imprescindibile con Francia e Germania", ha dichiarato. Parole che, prese in sé stesse, sembrerebbero suggerire quasi un'equidistanza. Eppure, anche qui, giova forse cercare di leggere tra le righe. Ma per farlo, dobbiamo fare un piccolo passo indietro. Da diverso tempo ormai l'asse franco-tedesco scricchiola al suo interno. E, in un certo senso, l'avvio della nuova presidenza americana ha incrementato la divaricazione tra Francia e Germania. Ora, abbiamo visto che, in Europa, molto probabilmente per Draghi sarà Berlino il principale interlocutore. E già questo lascia intendere che Parigi possa rivelarsi una capitale, per così dire, meno prioritaria. Anche perché bisogna poi aggiungere un ulteriore passo del discorso del premier. "Resta forte la nostra attenzione e proiezione verso le aree di naturale interesse prioritario, come i Balcani, il Mediterraneo allargato, con particolare attenzione alla Libia e al Mediterraneo orientale, e all'Africa".
Ecco: sappiamo che, sul dossier libico, la Francia non si sia mai rivelata una grande alleata dell'Italia e che –anzi– le abbia talvolta creato su questo fronte non pochi problemi. E' anche in questo senso che è forse possibile prevedere una minore convergenza con Parigi. Il che non significa per forza una linea radicalmente antifrancese. Sotto questo aspetto, non è escludibile che Draghi voglia cercare anche dei punti di coesione interna all'Unione europea. E uno di questi punti potrebbe rivelarsi proprio lo spinoso rapporto con la Turchia. "Continueremo […] a operare affinché si avvii un dialogo più virtuoso tra l'Unione europea e la Turchia, partner e alleato Nato". Il fatto che si invochi un "dialogo più virtuoso" lascia chiaramente intendere che, sinora, l'Europa – secondo Draghi – non abbia tenuto una linea accettabile nei confronti di Ankara, subendone spesso le minacce sul piano migratorio. Il premier potrebbe quindi cercare di utilizzare il dossier turco come strumento di compattamento europeo: una strategia che non solo potrebbe teoricamente rilanciare il ruolo politico italiano nell'Unione europea, ma anche salvaguardare il nostro interesse in Libia, dove l'influenza di Recep Tayyip Erdogan si sta facendo sempre più pressante.
E i partiti della coalizione? Cominciamo col dire che i grandi sconfitti in questo quadro strategico complessivo rischiano di essere i grillini: non è un mistero che ampi settori del Movimento 5 Stelle nutrissero forti simpatie nei confronti della Cina. E questo è indubbiamente uno dei motivi che spiegano il "trauma" pentastellato nel passaggio da Conte a Draghi. Il Pd, dal canto suo, non può non apprezzare la convergenza con l'amministrazione Biden. Eppure, al Nazareno, due fronti potrebbero risultare indigesti: la parziale apertura nei confronti della Russia e –più velatamente– la maggiore propensione del premier verso la Germania piuttosto che la Francia. E la Lega? La Lega sembrerebbe a prima vista l'altra grande sconfitta da questi lineamenti di politica estera. Ma le cose non stanno propriamente così. Innanzitutto ricordiamo che, specialmente nell'ultimo anno e mezzo, il Carroccio abbia tenuto una linea non poco dura nei confronti della Cina. La netta chiusura di Draghi a Pechino non può quindi che essere ben vista dalle parti di via Bellerio, mentre il pragmatismo sulla Russia è un elemento che è stato spesso invocato dalla Lega. Su Bruxelles, va ricordato che l'euroscetticismo non sia mai stata una posizione egemonica nel Carroccio, soprattutto al Centro-Nord, dove –pur magari invocando sostanziali riforme dell'Ue– non si è mai messo in discussione l'ancoraggio (soprattutto commerciale) alla Mitteleuropa. Del resto, proprio i casi di Francia e Germania dimostrano che la tutela dell'interesse nazionale non sia necessariamente in contraddizione con l'appartenenza all'Unione europea.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, è vero che non si registri su vari temi troppa affinità politica tra la Lega e Biden. Tuttavia il responsabile esteri del partito e attuale ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, ha più volte ribadito –anche prima delle elezioni statunitensi dello scorso novembre– l'ancoraggio atlantico del Carroccio, a prescindere dal presidente americano in carica. Quello stesso Giorgetti che è stato uno dei principali sponsor di Draghi nell'ultimo anno e che, durante il dibattito sulla fiducia in Senato, è rimasto costantemente seduto alla destra del premier. Alla sinistra stava invece in un primo momento il ministro dell'Agricoltura, Stefano Patuanelli, che si è tuttavia successivamente ritrovato sostituito dall'appena riconfermato capo della Farnesina, Luigi Di Maio. Per carità, magari i rapporti di forza politici non passano dalle sedie. Ma, a pensar male, verrebbe da credere che il ministro degli Esteri tema un commissariamento di fatto. Per cui, prima di dire che il Carroccio in questo governo non conterà nulla, aspettiamo un momento.