Su Netflix proseguono le uscite di film: quello di questa settimana, oltre a Love and Monsters è Ride or Die. Si tratta di una pellicola giapponese diretta da Ryūichi Hiroki e scritta da Nami Kikkawa tratta dalla serie manga Gunjō di Ching Nakamura.
Come si può immaginare dal titolo, Ride or Die è una sorta di Thelma e Louise in chiave giapponese, anche se non proprio come ti aspetti.
Protagonista, infatti, è Rei (Kiko Mizuhara), medico estetico, nata e cresciuta in una famiglia benestante che vive con la sua compagna di vecchia data. Un giorno riceve una chiamata da Nanae (Honami Sato), la ragazza per cui aveva una cotta al liceo e che non vedeva da dieci anni. Rei va subito da Nanae, che le rivela di essere vittima di violenza domestica dal marito. Nanae le chiede se sarebbe disposta a uccidere per lei, e Rei, ovviamente, accetta… Da qui ha inizio la loro fuga, nonostante il film cominci dall’omicidio e si sviluppi attraverso flashbak che ricostruiscono la storia delle due ragazze e alternando il passato con il presente.
Il regista Ryūichi Hiroki è considerato uno dei pochi cineasti uomini capace capaci di rappresentare le donne con profondità autentica. Dopo una prima produzione nel mondo dei pinku eiga (genere soft porn giapponese) si è cimentato a partire dagli anni Novanta in pellicole più convenzionali, anche se i temi della sessualità e dei problemi sociali che affliggono il Giappone moderno sono sempre il suo focus.
Non stupisce quindi che Hiroki abbia voluto dirigere Ride or Die, che avrebbe potuto essere una splendida occasione per affrontare il tema dell’amore dalla prospettiva omosessuale femminile. Impresa riuscita, però, solo parzialmente. Con alcuni limiti.
Di sicuro, il regista riesce a raccontare le difficoltà sociali dell’omosessualità attraverso la storia di Rei, a partire dalla madre che ha voluto credere che la figlia fosse “guarita”, alla società stessa, in cui fin dal liceo la ragazza lesbica viene emarginata dalle compagne.
Ride or Die è anche una descrizione dura di un’altra prospettiva sociale: da una parte, una donna che aggancia un uomo è senza dubbio una prostituta, secondo le stesse convenzioni per cui una ragazza povera può sperare di riscattarsi solo attraverso il matrimonio.
Il difetto principale di Ride or Die, tuttavia, consiste nella mancata centratura del focus principale: nonostante la durata (decisamente eccessiva, più di due ore) del film, la pellicola arriva alla conclusione senza confermare allo spettatore la tesi che si attribuisce al personaggio di Rei, cioè che un amore incredibilmente grande possa portare a compiere gesti estremi e assurdi. A mancare, infatti, è la conoscenza dell’anima di Nanae, la donna che Rei ama da sempre e per cui uccide un uomo, dopo esserci andata a letto – perdendo la sua verginità, per la prima volta con un uomo – in una scena che ricorda (troppo) Gone Girl – L’amore bugiardo.
Mentre Kiko Mizuhara riesce a esprimere tutti i sentimenti del suo personaggio – perfino con tocchi a tratti eccessivi –, Honami Sato aka Nanae rimane imperscrutabile per tutto il film. Non importa se alla fine sembra che entrambe le ragazze comprendano l’amore l’una per l’altra, in una scena di sesso saffico che, peraltro, è inutile quanto lunga, il dubbio che Nanae sia un’opportunista anaffettiva rimane fino ai titoli di coda. Impressione forse aggravata (ma chissà, magari è una scelta dettata dal copione) dall’interpretazione altrettanto piatta.
Pur con tutte le buone intenzioni, Ride or Die nel complesso rimane un'occasione sprecata per raccontare due protagoniste forti e la forza dell’amore in prospettiva noir.
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