Omofobia e genitori, non c’è solo Malika: la battaglia di Elison e Valentina per l’inclusione
La storia di Malika ci insegna tanto, ma non solo: ci ricorda ancora una volta quanto l’arretratezza culturale continua ad essere molto radicata nella società del nostro Paese. Durante un anno in cui ci saremmo dovuti sentire tutti più vicini, seppur distanti, scopriamo come in parecchi casi siamo ancora molto lontani dall’uguaglianza sociale, dall’accettazione e dalla convivenza con quello che vediamo “diverso” da noi stessi.
Sì, perché la storia di Malika è solo la punta di un iceberg gigantesco in un oceano fatto di ignoranza. Troppe sono le situazioni di esclusione, emarginazione e allontanamento di chi vive semplicemente la propria sessualità, senza aver mai recato danno a nessuno. E seppur a smuovere l’iceberg ci siano le istituzioni, i programmi tv, gli influencers sui social, gli psicologi e le associazioni, molto spesso le forze non bastano.
Abbiamo raccolto un’altra testimonianza, simile a quella di Malika, da parte di due ragazze torinesi, sposate civilmente da due anni. Ci hanno spiegato come sono cambiati, nel tempo, i loro rapporti con i genitori.
«Nella mia famiglia tutt’ora ci sono tanti problemi e i miei genitori non hanno accettato la nostra situazione» racconta Valentina. «Il nostro coming out è avvenuto sette mesi dopo esserci messe insieme: lo abbiamo detto prima alla mamma di Elison, che ha voluto subito chiamare i miei genitori perché non l’aveva interiorizzato la situazione, anche se a parole sembrava potesse accettarla».
«Disse ai miei genitori che io ero una pedofila perché avevo 19 anni e lei 16 - prosegue Elison - che lei mi aveva plagiato e non potesse essere diversamente. A quel punto ci sono state reazioni abbastanza violente. C'è stata una scena dove il padre le ha puntato il fucile contro, dicendole: meglio morta che frocia».
«I miei genitori sono stati meschini per tanti anni - conferma Valentina - dicevano che non ci saremmo viste mai più e che questa cosa sarebbe dovuta finire. Ci hanno tagliato i ponti, togliendoci il cellulare, PC e chiavi di casa, perché temevano che scappassimo. Vivendo sotto il tetto dei miei, non ho potuto dirgli che continuavo a frequentarla dal 2012 fino al 2017, quando siamo andate a convivere. Dovevamo fare attenzione a cosa facevamo e dove andavamo, perché in alcune zone potevano esserci amici dei genitori e rischiavamo violenze».
«I miei genitori invece - dice Elison - vedendo che sono scappata di casa tre volte, che mi sono impuntata, che sono diventata cattiva, hanno dovuto scegliere tra accettare me e la persona che amo o dimenticarsi di me.»
Tali reazioni sono dunque molto comuni e la vicenda di questi giorni, che ha avuto una risonanza mediatica maggiore rispetto ad altre, purtroppo non è unica nel suo genere. Le domande sorgono spontanee: cosa porta i genitori a rispondere in questo modo? Quali sono i complessi che li affliggono, gli effetti psicologici? Di cosa hanno bisogno esattamente per affrontare e superare il timore del “diverso accanto a sé”?
Lo abbiamo chiesto all’associazione “Agedo” di Asti-Alba, che si occupa proprio dei genitori, nel loro percorso di coming out dei figli e delle figlie, lottando per promuovere i diritti civili e i cambiamenti sociali nel nostro Paese.
La rappresentante legale Oriella Bolla ci spiega che il problema è all’origine: «I genitori non mettono mai in conto che i figli potrebbero avere un orientamento sessuale diverso dal proprio, il punto è proprio l’imprevisto. Inoltre, l’omosessualità e la transessualità sono ancora poco conosciute, e tutto ciò che è poco conosciuto fa paura». Questa impreparazione viene poi compromessa nelle realtà più piccole: «Gioca un ruolo importante quello che pensano gli altri, la paura dello stigma sociale, subentrano così meccanismi di rifiuto».
I rapporti non migliorano quando viene presa una decisione ancora più importante. È quello che è successo a Valentina ed Elison. «Quando abbiamo deciso di sposarci, i miei genitori mi hanno allontanata dicendomi: perché ci fai questo? Come se fosse una mia colpa, qualcosa che io facessi contro di loro. Non erano infatti presenti al mio matrimonio, c’era solo mia suocera» racconta Valentina.
«Molti parenti dal mio lato si sono rivelati dei falsi perbenisti, dicendo di appoggiarmi ma trovando delle scuse per non venire al matrimonio: se i bambini lo raccontano a scuola, cosa penseranno le maestre? Tutt'ora invece, i parenti di Vale non sanno che lei è sposata o che ha una relazione con me, pensano che viva in una casa-studio con altre quattro ragazze» afferma invece Elison.
«Una delle cose più particolari e che ci hanno ripetuto non sono i genitori, ma anche i parenti, è che non puoi sapere se sei davvero lesbica se non hai mai provato a stare con un uomo: come dire che i sentimenti che stai provando non valgono nulla, quindi per avere la dimostrazione del tuo tipo di orientamento sessuale devi per forza fare quello che sembra normale a me».
Agedo cerca di far superare tutto questo: rispetto ad anni fa le cose sono cambiate, ma il processo rimane ancora lungo e complesso.
«Oggi i genitori che chiedono aiuto sono meno disperati di una volta, hanno bisogno di condividere ma si è perso quel senso di alienazione perché se ne parla nella società e non c’è più quella invisibilità del mondo lgbt, ma c’è ancora molta resistenza e molti pregiudizi e stereotipi. La prima cosa che affrontano è la paura che il figlio rimarrà sempre solo, oppure si tende ancora a legare la transessualità alla prostituzione».
Da quello che vedono quotidianamente le ragazze, ci sono le nuove generazioni, come i millennials, che generalmente sono molto più aperte «forse perché la tv ha implementato il mondo queer (non etero) in modo normale, ma per le fasce d’età dai 50-60 è più difficile. Persone più ignoranti vivono un’incomprensione tra intolleranza e violenza: non capisco ed è colpa tua, quindi divento aggressivo».
Le ragazze poi ci riportano anche la differenza di comportamento che hanno notato tra padri e madri. Per Valentina, nessuna: «C’è sempre stato lo stesso comportamento, negazione assoluta, un voler annullare tutto questo capitolo della mia vita, non vogliono vederlo tutt'ora. Io ho riallacciato i rapporti, ma sempre con il fatto che nessuno deve sapere di questa mia condizione. Elison per tanti anni è stata ‘lei’, ‘quella’, ‘la tua amica’».
Per Elison invece sì: «Mio padre non so se l'ha davvero mai accettata o se fosse ipocrisia, di sicuro mia madre ha avuto un atteggiamento più ostile, perché non riusciva più a controllarmi come voleva».
In Italia siamo ancora indietro rispetto all’Europa. In altri paesi, infatti, questa arretratezza è meno presente.
«Mio figlio vive in Germania proprio perché sentiva ambienti molto ostili in Italia. Lì in alcune grandi città è un altro mondo. Anche in Spagna ci sono città molto accoglienti per la comunità lgbt: si possono tranquillamente vedere per strada uomini che si abbracciano, donne che si baciano e non succede niente» afferma la rappresentante di Agedo. «Da noi in alcuni posti vengono addirittura picchiati».
Anche secondo le ragazze ci sono differenze sostanziali: «Ovviamente rispetto a paesi che hanno ad esempio proibito l'aborto siamo più avanti, ma in linea generale non lo siamo per nulla. Pensiamo alla stepchild adoption: se un bambino cresce con due genitori dello stesso sesso e viene a mancare il genitore biologico, l’altro non ha nessun vincolo legale perché non riconosciuto, seppur considerato genitore dal/la bambino/a. Oppure, finché il bambino non è maggiorenne - prosegue Elison - bisogna scrivere giustificazioni all’altro genitore solo per andare a prendere il figlio da scuola».
Il discorso si amplifica verso il processo legislativo che stiamo vivendo, con l’attuale ddl Zan che stenta nell’approvazione e che ha subito una serie di critiche. «Come pensiamo di poter cambiare la situazione? Il decreto non è accettato perché da diritti. Poter dire di aver subito un’aggressione, solo perché ero mano nella mano con la mia compagna, è importante».