Le sette vite di un cileno errante, biografia “segreta” di Sepulveda
Ci sono cinque prigionieri appesi al soffitto come quarti di bue. «Uno sono io». L’attenzione si sposta subito. Verso il militare che arriva per l’ispezione. «C’è qualche cosa che posso fare per voi? ». Di nuovo l’attenzione si sposta. Parla un altro prigioniero. È un consigliere comunale. Di un paesino del Sud del mondo. Non si studia nella geografia europea. «Sì. Può avvicinare il pavimento ai nostri piedi?». Il sarcasmo cileno, «molto vicino a quello livornese». Ilide Carmignani era amica di Luis Sepulveda. Una delle poche che alle cene si potesse sedere accanto a lui e condividere i silenzi. Tradurne 26 libri dallo spagnolo, poesie, articoli – esserne la voce italiana – è stata la parte più facile. Il resto è stato amicizia, cementata a tavola, nella casa sulle colline di Lucca: vino rosso, pasta condita con il sugo della zia Dorina, memoria, confidenze. Era lì, in quella casa, Sepulveda – sangue mapuche, asturiano e livornese (la nonna materna) – anche quando arrivò la notizia della morte di Pinochet.
LE SETTE VITE
Forse Lucho – così lo chiamavano gli amici, fino a un anno fa, quando il Covid lo ha battuto – lo sapeva da tanto che Ilide avrebbe proseguito il “suo” racconto dove lui lo aveva interrotto. Anzi dove non si era mai addentrato: nella sua biografia “Storia di Luis Sepùlveda e del suo gatto Zorba”. Preferiva le vite degli altri alla sua. «Non una vita: sette vite, come i gatti. Per questo ho scelto Diderot, il gatto enciclopedico di “Storia di una gabbianella...” come voce narrante di questa biografia per ragazzi su Lucho. Che in un viaggio in Medio Oriente venne avvicinato da un Imam e apostrofato: “Tu in un’altra vita sei stato il gatto di un faraone”. Gli donò tre gatti di ottone con l’invito a non lasciarli mai senza cibo. Ma poi Lucho nel libro parla in prima persona: per me che l’ho sempre tradotto è stata la forma più naturale». L’unica che si può usare per dirti che l’11 settembre 1973, giorno del golpe contro il governo di Allende in Cile «finì la mia giovinezza. Mi alzai a 23 anni, a sera ero un adulto». E non era solo perché la mattina Lucho è, coi compagni a sorvegliare l’acquedotto di Santiago, dopo i tentativi di avvelenamento da parte della destra. È male armato: una vecchia pistola che arriva da Cuba, con il calcio di madreperla: «Sembra quella del generale Patton allo sbarco in Normandia». È che quando, a bombardamenti in corso, corre all’ospedale Barros Luco di San Miguel – ci riferisce Ilide – «per ritirare sacche di sangue per i feriti, scoprimmo che medici, infermieri e pazienti erano stati tutti fucilati e i cadaveri ammucchiati nel cortile per diffondere il terrore».
La voce di Ilide e di Lucho sono una sola, in questa biografia che va dritta al cuore. Ti sorprende ed emoziona. È un orizzonte come solo certe vite sanno essere: senza confini.
IL CILENO ERRANTE
Solo così ti spieghi certa letteratura. Con incontri fatali maturati nel Sud del mondo in un emisfero dove tutto è sottosopra, ma non al contrario. Lucho nasce a ottobre, in piena primavera. È un cileno errante, ma con radici radicatissime, tanto da affidare all’amica toscana il testamento spirituale: «Sono nato alla fine del mondo e alla fine del mondo voglio fare ritorno: davanti all’isola di Chiloè c’è un grande vulcano, che si specchia in un mare inquieto. È la sentinella della Patagonia. Mi piacerebbe riposare ai suoi piedi». È lì che – ci svela Ilide – lo porterà Carmen, la donna del destino di Lucho. La sua “pelusa”, il suo batuffolo, conosciuta in cambio di due bottiglie di vino rosso offerte al fratello di Carmen. Dopo alcuni innamoramenti sbagliati.
CARMEN
Anche con quella ragazzina alla quale, poco più che adolescente, regala il suo bene più prezioso: la foto della nazionale di calcio del Cile del 1962, con l’autografo di tutti i calciatori, rincorsi per mesi. Un tesoro per Lucho che per un po’ sogna anche di diventare calciatore, quando gioca nella squadra “Unidos vinceremos”, un nome che già era un destino per il “gordo”, il grassottello che non aveva futuro nel “futbòl” (come l’amico argentino Soriano) ma una sorte certa come scrittore ed esiliato.
Carmen condivide molto di questo. I nomi incisi su un legno accanto alla capanna sull’Isla Negra dove Neruda compone poesie. L’impegno per Allende «anche se per Carmen Lucho era un po’ troppo “borghese”, malgrado avesse già combattuto con i guerriglieri sopravvissuti a Che Guevara in Bolivia, come Chato Peredo». Perciò Lucho entra nel Gap (Gruppo amici personali di Allende), vive con lui i 1000 giorni di felicità del governo». Conosce i suoi gusti – la passione per il gelato al cocco e le cravatte italiane – il viaggio su un aereo chiamato “il pappagallo singhiozzante” immersi nel puzzo di pecora perché era usato anche per il trasporto di bestiame. «Era stato anche messo a capo di un’industria che produceva, seccava ed esportava prugne in Europa» – racconta Ilide – prima che venisse catturato. A 24 anni, nell’anno in cui si sposa, ha un figlio e Carmen lo va trovare: da Santiago al Sud del paese. «Sette mesi in un buco dove non potevo stare né in piedi né seduto. Sono sopravvissuto ripassando a mente i libri di Conrad, Melville, Verne e giocando a scacchi a occhi chiusi». Così si sopravvive alla false fucilazioni. Anche Carmen, buttata in una discarica con altri cadaveri, data per morta, sopravviverà solo perché ha sempre potuto scrivere versi.
IL GUERRIGLIERO
Lucho si salva per le pressioni di Amnesty international. Due volte, ci rivela Ilide. La seconda, i 28 anni di carcere diventano esilio. Il 17 luglio 1977 Lucho lascia il Paese, dove era cresciuto con le caramelle alla violetta di nanita Susana e i venerdì al circolo asturiano con il nonno repubblicano a insultare il generalissimo Franco: in tasca ha il pacchetto di sigarette del padre, marca Monarch.
È diretto in Europa. Ma si ferma in Argentina. Iniziano le altre sue vite. In Ecuador a insegnare a leggere e scrivere ai contadini; 7 mesi in Amazzonia fra gli Shuar come giornalista antropologo per l’Unesco. Poi partecipa alla guerriglia sandinista contro la dittatura di Somoza in Nicaragua: il 19 luglio 1979 entra a Managua liberata, ma non condivide la gioia con un amico insolito, un altro: il comandante Martìn, un prete operaio, convertito alla lotta armata.
L'EUROPA
Eppoi? Poi ci sono le vite europee. Amburgo, con Amnesty. La battaglia con Greenpeace contro lo sterminio delle balene – ecco il ciondolo al collo con la balena d’argento – il matrimonio tedesco, i gemelli, i romanzi di successo; il nuovo incontro con Carmen, la decisione di risposarsi, la casa di Gijon sul mare «perché dall’esilio non si torna». Nel mezzo, quello che Ilide svela in una biografia «a più livelli», col ritmo di Salgari, da leggere davanti a un caminetto, davanti a un mare, in un prato o su una vetta. Ovunque ci sia una prospettiva. Perché questo era Lucho: dialogo e prospettiva. L’assenza di frontiere. Un ponte gettato sul tutto. –
© RIPRODUZIONE RISERVATA