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Апрель
2021

Una carriera cult Venezia premia Roberto Benigni con il Leone d’Oro

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Fabio Canessa

Per una felice coincidenza, la Mostra di Venezia ha deciso di dare il Leone d’Oro alla carriera a Roberto Benigni nell’anno in cui si celebra Dante dappertutto. Lo scrittore toscano più famoso della storia del mondo e l’attore toscano più famoso del mondo contemporaneo, il sommo poeta e il suo appassionato divulgatore, l’autore della Commedia e il re della comicità vengono festeggiati insieme in questo 2021, per il resto poco entusiasmante.

Il Leone d’Oro consacra la carriera esaltante e il talento immenso dell’ultimo grande comico del cinema italiano. Travolgente, rivoluzionario e trasgressivo quando fece irruzione per la prima volta nelle case degli italiani nel 1976 con “Televacca” (titolo poi ammorbidito in “Onda libera”) cantando “La marcia degli incazzati” e “L’inno del corpo sciolto”. Il suo Cioni Mario, carico degli umori della Toscana contadina e sboccata, povera e vitale, quella delle Case del popolo e dei campi di grano, si trasferì dal piccolo al grande schermo nel 1977, con “Berlinguer ti voglio bene” di Giuseppe Bertolucci, un capolavoro grottesco e surreale girato tra Vergaio e Campi Bisenzio. Fu poi “L’altra domenica” a renderlo popolare nel ruolo di improbabile critico cinematografico, e sempre con Renzo Arbore condivise film di successo come “Il pap’occhio” e “FFSS”.

Da allora ha riempito i teatri con il tour “Tuttobenigni” (diventato anche un film) e ogni sua apparizione televisiva è stata un evento: dal “Fantastico” in cui baciò Pippo Baudo alla lettera a Berlusconi scritta con Adriano Celentano a “Rockpolitik”, dall’elogio della Costituzione al commento ai Dieci Comandamenti. Pur essendosi affermato quando gli anni d’oro del nostro cinema erano agli sgoccioli, ce l’ha fatta a lavorare con tutti i grandi, non solo italiani: da Luigi Zampa a Bernardo Bertolucci, da Costa Gavras a Blake Edwards, da Marco Ferreri a Federico Fellini, da Woody Allen al Matteo Garrone del “Pinocchio” adesso candidato a due Oscar.

E se “Chiedo asilo” e “La voce della luna” già gli avevano dato visibilità internazionale, è stato il Benigni regista a raggiungere il vertice dei riconoscimenti. Dopo la comicità pura di “Tu mi turbi”, “Il piccolo diavolo”, “Johnny Stecchino” e “Il mostro”, tutti campioni al box-office, fu “La vita è bella” a fare di Benigni il Charlie Chaplin italiano. La sfida di raccontare la Shoah in modo originale, mescolando lacrime e risate, gag e commozione, fu vinta con il premio a Cannes e tre Oscar nel 1999: miglior film, miglior attore e miglior colonna sonora. A oggi rimane il maggior incasso di un film italiano a livello mondiale.

Se dovessimo scrivere la motivazione del Leone d’Oro, tre sono le opere che faremmo spiccare in una filmografia così ricca: “Il minestrone” di Sergio Citti, in cui Benigni sembra fondersi con Pasolini, “Non ci resta che piangere”, il viaggio nel tempo con Massimo Troisi di cui ancora oggi si ricordano a memoria gag strepitose e battute fulminanti, e “Daunbailò” di Jim Jarmush, dove un Benigni evaso dalla prigione di New Orleans recita fra le paludi della Louisiana in un assurdo pasticcio linguistico tra il toscano e lo slang.

Dispiace solo che, dopo l’overdose di trionfi con “La vita è bella”, Robbeerto (come gridò Sophia Loren alla cerimonia hollywoodiana) non se la sia più sentita di tornare alla comicità pura che lo ha reso il beniamino del pubblico: avrebbe potuto essere il Totò del Duemila, con la sua maschera capace di fondere furbizia e candore, crudeltà e tenerezza, turpiloquio e poesia. Invece ha scelto di alzare l’asticella della cultura e dell’impegno, prima dirigendo un “Pinocchio” che deluse le grandi aspettative del dopo Oscar, poi complicandosi la vita con la guerra in Iraq nel tentativo di mandare a braccetto ancora una volta tragedia e farsa in “La tigre e la neve”, film riuscito più per l’irresistibile genialità del Benigni attore che non per il messaggio deboluccio sul potere salvifico della poesia di fronte alla morte.

Uscì nel 2005 e da allora Roberto Benigni non ha più diretto un film. Speriamo che il Leone, anziché monumentalizzare il suo talento, gli faccia tornare la voglia di divertirci. Non solo con le zampate spassose di un blitz in televisione o una comparsata al Quirinale, ma a brillare sugli schermi per farci sbellicare dalle risate, commuoverci o quello che vuole lui. È un peccato che il cinema italiano, in questo periodo di magra, sia privo anzitempo del suo maggior uomo di spettacolo. —

© RIPRODUZIONE RISERVATA




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