Il clown parla al re e gli dice la verità: Delfini tesse l’elogio della fallibilità umana
MANTOVA. Date retta al clown, che dice sempre la verità. Perché ha una maschera e perché lo ha sempre fatto, anche di fronte ai re. Angela Delfini si racconta partendo da verità, fallibilità e approccio ironico alla vita. Fino alla necessità di tentare sempre.
Lei ora lavora in tutto il mondo. Cosa ha innescato il fuoco?
«Da piccola ho visto un video di Michael Jackson: sono impazzita. Ero poi andata a vedere una commedia dialettale a Bancole e ho voluto fare teatro. Ci sono state la danza classica e moderna a Mantova, poi ancora sono andata a fare la scuola d’arte drammatica Paolo Grassi. Da lì ho approcciato il mondo dello spettacolo in modo professionale. Ho lavorato come danzatrice, poi in teatro. Ho fatto cinema in Francia, era una produzione italiana; ho fatto il tour di cinema-teatro con Marc Hollogne. Lui divide la scena in due: c’è un maxi schermo e ci sono gli attori che interagiscono dal vivo. Un giorno ho vidi un vhs: c’era questo pazzo furioso, Jango Edward, che è considerato il padrino dei clown a livello mondiale. Una scintilla: ho fatto un laboratorio con lui. Ed eccomi qui».
Qual è il ruolo del clown? E come lo agisce?
«Il clown è l’attore migliore del mondo, non c’è la “quarta parete” e la condivisione di intenti e visioni con il pubblico è totale. L’errore è pane quotidiano, così come l’empatia con il pubblico. È come se ci dicessimo: stiamo sulla stessa barca e la nostra esistenza può essere stupida. Ammettere la fallibilità sembra banale, ma in questa società super performativa come se ne esce? Il clown è attore, regista, mimo, ballerino, produttore, autore, musico nel cuore e nella mente. Il modo in cui tratterà l’argomento sarà leale e sincero: perché è la ricerca della libertà. Siamo nati clown, poi la società ci incasella e ci sopprime le emozioni. Ma sempre, ad un certo punto, si incappa nel clown: allora succede che questo ci rimette in contatto con il cuore e il cammino».
Uno stato psicofisico istantaneo.
«Il clown è tutto in quel momento. C’è il canovaccio, ma sei a contatto con la gente e hai deciso di farla entrare nel tuo mondo. È sempre una sorpresa reciproca».
Si può davvero imparare?
«Ci sono tantissime scuole diverse, in tutto il mondo. Anche quelle da 5 settimane. Io dico sempre di studiare con i dinosauri. Ma non è tutto qui. Il clown è molto autodidatta, è una mente creativa eclettica. Certo non è un dogma, ma tutti quelli che conosco lo fanno così: ideano tutto loro, dai costumi alle scenografie. Si costruisce un mondo, non solo un prodotto».
Un po’ clown lo si deve essere di natura... o no?
«Il saltimbanco della compagnia ha un approccio ironico alla vita ed è in grado di osservare l’essere umano. È già un clown, e poi potrà fare della sua arte una creazione. Più si va avanti, più ci si avvicina all’anima».
Qual è il pubblico del clown?
«Chi si avvicina al clown è già predisposto. Poi ci si può anche mettere in viaggio, appendere un cartello al furgone e vedere cosa succede con i passanti. Le sorprese non mancano. Certo devo dire che la volontà di approccio è diminuita perché siamo tutti meno abituati all’arte: fruiamo di uno schermo, la tv, che abbassa l’immaginazione. Senza parlare di telefonino, tablet o pc. Noi ci stiamo organizzando per divertirci nel fare cose online, ma è difficile vivere così. Perché se andiamo alla parola, alla base, c’è il gioco: spielen, jouer, play. Vuol sempre dire recitare e giocare. Questo perché è un impulso primordiale: perché non continuare a giocare?
Se il clown dice sempre la verità, come si vive il senso del limite?
«Il limite non esiste e la definizione di uno spazio definito non c’è. Se guardo la Terra dall’alto, del resto, non vedo confini. Di sicuro incontrare un clown libera dalla castrazione. Ma più in generale non importa dove la creatività viene incasellata. Il risveglio della creatività è proprio questa libertà. Dirsi “lo faccio nella giusta casella o non lo faccio”, oppure pensare che la tal cosa non valga? È sempre meglio farlo, buttarsi e tentare. Fino a quando non si fa, non esiste. Le idee hanno bisogno di trascendere in mezzo agli uomini: è la libertà di non essere più definiti e inquadrati in qualcosa. Perché definire vuol sempre dire chiudere, in qualche modo. Il pittore che mette il punto nero sul foglio bianco alla fine di una vita in cui ha dipinto l’impossibile è normale: ma se il pittore è all’inizio mi suona strano, perché è un atto intellettuale, non emotivo. E certo, l’errore va bene, anche fare il punto nero all’inizio di un percorso di pittura va bene. Ma dico che sempre bisogna avere la possibilità di fermarsi e avere cura del proprio sentire, alimentandolo: è la cosa più importante. Ce ne rendiamo conto adesso che non abbiamo a disposizione cose che credevamo fondamentali, ma stiamo comunque sopravvivendo. Avere tutto il tempo per mettersi in contatto con se stessi spaventa molto, perché ci imponiamo sempre un rumore che ci distragga. Invece nel silenzio ci sono infinite possibilità. È un tesoro».
Che lingua parla il clown?
«Dal punto di vista tradizionale, il clown non parla o parla poco: usa un linguaggio universale. A Mantova ho fatto uno spettacolo in inglese per sentirmi in un spazio dove avere un margine di errore più grande: tutti capiscono l’intento e io posso permettermi di sbagliare. Prendiamo il naso rosso, la maschera più piccola: io lo metto perché ti protegge. Lo sanno tutti che non si sta in piedi su un cavallo, l’unico che può farlo ha il naso rosso, è ubriaco, disinibito. Il clown è una figura spirituale: è quello che interrompe la festa sacra e viene a dire la verità che non si può dire e dà al popolo la libertà di sapere. Il clown, il buffone: è quello che parla al re, è il tramite tra la società e il potere. Parla alla società della società in una lingua che la gente non conosce ma intuisce».