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Апрель
2021

Modena e Pupi Avati: «Invito i lettori a fare un viaggio “intuitivo” alle radici del male»

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MODENA. Con “L’archivio del Diavolo”, sequel de “Il signor Diavolo”, Pupi Avati torna ancora una volta al romanzo nerissimo.

E tra le pagine riappare, ma forse è un’allucinazione, Furio Momentè, funzionario ministeriale scomparso durante la sua missione a Lio Piccolo, un minuscolo paese della laguna veneta che della superstizione ha fatto credo. Qui un adolescente, persuaso di aver scovato il maligno sotto mentite spoglie, uccide un coetaneo. A Momentè, “democristiano e baciapile”, spetta il compito di “svolgere un’indagine parallela e segreta, tesa a sventare l’ipotesi di qualunque correità del mondo cattolico”.

Edito da Solferino “L’archivio del Diavolo” sarà presentato in diretta streaming dall’autore stesso questa sera al Forum Monzani di Modena. Il libro inizia da dove il povero Momentè “finisce”, divorato dal ventre oscuro di Lio Piccolo.

Sepolto vivo, come pare accadde al drammaturgo russo Gogol di cui Avati resuscita il racconto. Con una postilla: “Su Gogol’ molto è vero e molto ho immaginato”. Protagonista de “L’archivio del Diavolo” è Don Stefano Nascetti, sacerdote non privo di fascino (ma senza vocazione) approdato suo malgrado nel Polesine per sfuggire al questore di Venezia Carlo Saintjust cui è legato da un evento del passato che vorrebbe dimenticare. Don Stefano scoprirà però a proprie spese che il male che si nutre di radicate credenze è ben peggiore del livore di qualsiasi uomo. Romanzo gotico che più gotico non si può “L’archivio del Diavolo” è un vero incubo ad occhi aperti, un mistero spiazzante. Distinguere infatti la realtà dall’illusione ipnagogica è impresa ardua, pressoché impossibile.

«Ha sottolineato un aspetto pertinente – concede l’autore - è un libro misterioso e volutamente difficile. Nel seguito de “Il signor Diavolo” ho pensato di alzare un po' l’asticella. Chiedo al lettore uno sforzo intuitivo. Oggi le librerie sono piene di testi facili, la gente si aspetta sempre di trovare ciò che già sa, vuole essere rassicurata. Lo stesso dicasi in ambito cinematografico. L’impegno intellettuale genera diffidenza».

Quale è stata la reazione del suo editore quando lei ha detto “voglio scrivere un libro difficile”?

«Stranamente si è mostrato concorde e io ne ho approfittato per affrontare un tema che avevo in mente da tempo: le allucinazioni ipnagogiche. Brevi ma vivide esperienze che capitano all’inizio del sonno e che spesso sono associate a paralisi. Da qui il timore della morte apparente, dell’essere sepolti vivi. Franco Ciani, uno dei personaggi del mio libro, è una guardia notturna che per tenersi sveglio scrive la storia di Gogol’. Lo scrittore russo venne trovato nella bara girato su un fianco – segno che fu sepolto vivo – e senza testa. Del caso se ne occupò persino Stalin».

Un altro “tema” a lei caro è Dante, tornato in auge a 700 anni dalla sua morte. Da molto tempo desidera girare un film sul sommo poeta. A quando le riprese ?

«La prima settimana di giugno ma inizieranno in modo abbastanza francescano. Sono un po’ agitato. Per ben diciotto anni mi sono illuso, pensavo che da parte degli italiani vi fosse un sincero interesse nei confronti di Dante. Ero convinto che a livello produttivo ci sarebbe stata la fila, che in molti non vedessero l’ora di partecipare alla realizzazione di questo film. E invece…Investono milioni di euro in progetti di scarsa importanza e poi, quando si tratta di Dante Alighieri… La sola certezza è che a vestire i panni di Boccaccio sarà Sergio Castellitto.

Boccaccio è tramite fondamentale per arrivare a Dante così come la Vita Nuova. Il protagonista del suo film non sarà infatti il sommo poeta arcigno che abbiamo incontrato a scuola. È così?

«La mia scuola di stampo altomedievale non mi ha certo aiutato ad apprezzare Dante. E non credo che oggi sia cambiato granché. Non puoi comprendere il poeta, anzi l’uomo, usando come porta d’accesso la Divina Commedia. Piuttosto bisogna partire dalla Vita Nuova, raccolta di liriche giovanili in cui il poeta ripercorre la sua platonica storia d’amore con Beatrice. Lei lo salutò una sola volta a nove anni, sposò quindi un altro per poi morire giovane. A me interessa la fragilità di Dante, l’uomo sofferente. Ha perso la mamma a 5 anni, ha perso il suo grande amore, è stato mandato in esilio ingiustamente…Il suo dolore non ha mai ottenuto risarcimento».

Che cos’è la bellezza?

«È qualcosa che commuove. Alla bellezza si accede attraverso la propria vulnerabilità. Le persone vulnerabili sono le migliori”. E che tipo di persone sono i giovani oggi? “Io da ragazzo mi raccontavo grandi bugie il che mi aiutava a fare progetti. Non sempre andava bene. Il mio sogno della musica si è infranto ma ne ho realizzato un altro. Oggi la capacità dei giovani di auto illudersi è infinitesimale. Sono troppo legati alla roba, al successo economico che in Emilia è sempre stato importante ma che ora si traduce in “tu sei quello che hai”. Questi ragazzi dovrebbero avere qualche ambizione personale in più. Pasolini, Fellini…loro sì che facevano grandi sogni! Frequentavano l’improbabile». Improbabile è immaginare

Renato Pozzetto lontano dalla comicità. In “Lei mi parla ancora", il suo ultimo film, Pozzetto è commovente, strepitoso. Le piace il rischio…

«Non potrebbe essere altrimenti. Credo che il nostro dovere sia quello di stupire. Ma spesso vince la pigrizia, non c’è più la voglia di rischiare. Io ho l’animo del giocatore d’azzardo. Non è forse meraviglioso offrire un'altra opportunità ad un attore ormai condannato al silenzio che ha sempre interpretato ruoli comici? Pozzetto ha ricevuto molti complimenti. Io pure”.

Conosce Modena?

« A Modena, all’inizio degli anni Sessanta, ho inciso il primo disco della mia vita, un 45 giri. Allora suonavo con la Doctor Dixie Jazz Band e sognavo di diventare un grande clarinettista jazz. Ma un giorno nella nostra orchestra arrivò Lucio Dalla e…per 4 anni ho venduto surgelati. Poi mi sono illuso di fare il cineasta». —




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