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Апрель
2021

Se non è politicamente corretta non è una serie

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In ogni sceneggiatura oggi ci devono essere personaggi bianchi, africani, asiatici, lesbiche, gay... Tutto calibrato in nome del «rispetto per le minoranze», etniche o sessuali. Un pensiero militante che ormai si è fatto propaganda.


Scorri le trame, e sembra di leggere una di quelle vecchie barzellette stantie con un italiano, un inglese e un francese. Solo che adesso sono un nero, un asiatico, una ragazza problematica, un gay, un'altra ragazza tutta d'un pezzo, possibilmente lesbica. O nera o asiatica o latina. Il cinema italiano - tra grandi applausi e commossi elogi - abolisce una volta e per sempre la censura, di cui praticamente nessuno ricordava l'esistenza, e di cui forse un domani sentiremo perfino la mancanza.

E tocca rendersi conto che di occhiuto controllo sulle produzioni cinematografiche o televisive, ormai, non c'è più bisogno. Ci pensa il mainstream a mettere tutto in regola, a imporre un pensiero monolitico e ben calibrato, rispettoso dei limiti disposti dal potere.

Un tempo gli attivisti politically correct si scagliavano contro i «maschi bianchi morti», cioè i grandi autori del passato che, a dire dei militanti, avrebbero dovuto lasciare spazio agli esponenti letterari delle minoranze etniche, sociali e religiose. Ebbene, oggi i maschi bianchi si vedono sullo schermo soltanto nei film e nelle serie di zombie: morti, appunto. Anzi, morti viventi, persino quando non spuntano da una tomba.

Prendiamo i protagonisti di The Undoing, recente serie tv di David E. Kelley con due pezzi da novanta come Nicole Kidman e Hugh Grant. Danno corpo a una coppia americana di mezza età, aristocrazia del pensiero, ovviamente liberal, attanagliata da dilemmi morali cui i comuni mortali sono solitamente immuni. Basta una ragazza latineggiante (l'italiana Matilda De Angelis) - povera, sposata con un latino anche lui povero, con un figlioletto minuscolo, perché i poveri fanno figli da giovani - per far esplodere tutte le loro turbe (tra cui una robusta attrazione omosessuale per la ragazza da parte della Kidman).

Ecco, di solito ci si ferma qui, a queste analisi superficiali. Per il resto è il festival della minoranza, di cui Netflix è ovviamente il portabandiera. Quello di responsabile dei casting dev'essere diventato di recente uno dei mestieri più pericolosi del mondo: basta sbagliare una percentuale o una quota per finire sulla graticola.

Per ovviare al problema della rappresentanza sociale, ultimamente va di moda il gioco di squadra. Cioè si scelgono storie i cui protagonisti compongono un gruppo o una sorta di «collettivo», così da coprire ogni casellina. Prendiamo una recente uscita targata Netflix, Gli Irregolari di Baker Street. Già il titolo dice tutto: si riprende un marchio di enorme successo (Baker Street, dunque Sherlock Holmes) e lo si rimastica in chiave ridicolmente contemporanea. I personaggi devono essere «irregolari», cioè «non conformi», «diversi dalla norma». E se la norma è la mascolinità bianca eterosessuale occidentale, beh, ci siamo già capiti. Dunque abbiamo un personaggio asiatico, uno nero, uno arcobaleno...

Gli autori di Lupin, altro remake del classicone sul ladro gentiluomo, sono stati appena più originali. Hanno scelto il nero Omar Sy per la parte principale, ma almeno non gli hanno affidato il ruolo del Lupin dei romanzi, bensì di una specie di strampalato erede. Certo non avrebbero potuto far peggio dei produttori di Troy: la caduta di Troia, che per il ruolo del biondo Achille selezionarono un attore afroamericano.

Se non hai almeno tre minoranze davanti alla cinepresa, ormai non sei nessuno. L'attore Michael B. Jordan, protagonista del nuovo thriller hollywoodiano di Stefano Sollima (Senza rimorso, da un romanzo di Tom Clancy), intervistato dal Venerdì di Repubblica si vanta di far applicare la cosiddetta clausola di inclusione: «Pretendo che nelle mie produzioni vengano rispettate percentuali di partecipazione che includano le donne, i neri, la comunità Lgbtq+, i disabili».

Diamine, dev'essere divertente per gli sceneggiatori: «Ehi, ci manca un transgender, dove possiamo infilarlo? Facciamo che a un certo punto il nostro eroe, dopo aver fatto esplodere un edificio e fatto una impennata con la Ducati, si sente di dover esprimere se stesso e diventare donna?».

Qualcuno potrebbe dire: ma che fastidio vi dà che nelle serie e nei film siano rappresentati gruppi sociali discriminati? Il punto principale è che alcuni gruppi, per esempio la comunità Lgbtq, sono tendenzialmente sovrarappresentati. Vero: per la prima volta da anni, nel 2021 il numero di personaggi arcobaleno negli show televisivi americani è leggermente calato.

«La percentuale di personaggi regolari nei programmi televisivi in prima serata che si sono identificati come lesbiche, gay, bisessuali, transgender o queer è scesa al 9,1% nella stagione 2020-21, dopo che nell'anno precedente si era toccata la percentuale record del 10,2%» ha scritto il New York Times di recente. «Il numero di personaggi Lgbtq ricorrenti che fanno più apparizioni in una serie, ma non fanno parte del cast principale, è più o meno lo stesso della stagione precedente: 31 quest'anno, rispetto ai 30% dell'anno precedente». Parliamo, in ogni caso, di cifre importanti. Che di solito non rispecchiano la reale composizione delle società a cui si rivolgono.

Sullo schermo, insomma, è presentata una sorta di «società ideale» multietnica, utile a dar forma all'immaginario per modellare successivamente il mondo. Se non è esattamente propaganda, siamo comunque dalle parti del martellamento ideologico. Chi vuole trovare spazio, deve presentarsi dunque come minoranza lamentosa del tipo passivo-aggressivo.

Per cui vanno bene i «poveri bianchi» di Elegia americana (perché sono fondamentalmente sfigati e un po' ottusi), ma il bianco senza evidenti traumi è guardato con sospetto. Un cattivo nero? Meglio di no. Un transgender? Uh, certo, si abbondi pure, anche se si tratta di una Kai Shappley, nove anni, bambino che si sente femmina e si veste e comporta come tale (lo show in questione era l'americano Baby Sitters Club). Un maschio bianco che tradisce una donna? Non sia mai, è sessismo! Anche se il personaggio è Salvo Montalbano, quindi area progressista, per intendersi.

Già, perché anche le produzioni italiane ormai da qualche tempo risentono della «quotite». Con ritardo decennale sugli Stati Uniti, ovviamente, ma vedrete che il tempo perduto sarà recuperato al più presto. Il mondo della pubblicità, per dire, si è già adattato da parecchio.

Ma chissà, forse tra una baggianata buonista e l'altra ci sarà pure spazio per qualcosa di meno ideologico, che non abbia timore di mostrare (orrore!) anche qualche protagonista bianco in una nazione a prevalenza bianca. A breve, per esempio, andrà in onda la nuova serie di Niccolò Ammaniti, intitolata Anna, e in effetti il personaggio principale è una ragazzina italiana, che si muove in Italia e avrà pure un genitore bianco, uno zio bianco... Come dite? Che nella serie vengono tutti uccisi da un virus? Chiaro: bianchi, morti.




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