“C’è in noi niente, neanche pianto”: Ketty Daneo e quei versi scolpiti sopra la Risiera
TRIESTE Si chiamava Enrica Bon. Ma nessuno la conosceva con questo nome e c’è da dire che quello che la poetessa si era scelta per firmare le sue opere le calzava a pennello. Tutti la conoscevano come Ketty Daneo, un nome un po’ da fiaba, “Ketty”, o da romanzo ottocentesco. Le assomigliava quello pseudonimo. Chi ha avuto la fortuna di incontrarla o assistere a qualche sua lettura, assisteva a una specie di aura fiabesca. Lei, nata a Trieste nel 1908 e scomparsa nel ’98, era più simile a una dama d’altri tempi piuttosto che a una donna moderna. Vestiva con colori e mise che non avrebbero stonato in una storia d’appendice anni ’30.
Era elegante, sinuosa, attraente, anche in tarda età, si capiva benissimo che doveva essere stata una ragazza bellissima. Soprattutto esprimeva una mente fuori schema, non tanto per la sua poetica, alimentata da temi consueti nella poesia. La sua personalità emanava un certo carisma, forse per dolcezza o armonia o stile estetico, sempre molto originale. C’era spesso una energica corte di fan ai suoi incontri, soprattutto donne.
Aveva esordito nella poesia giovanissima, l’occasione fu a Radio Trieste nel 1944, stazione radiofonica per cui scriverà anche alcune commedie teatrali. Il primo libro è “Al di là del fiume”, edito nel 1950. Ne seguiranno molti altri fino all’ultimo, l’antologica “Il liuto del confine”, pubblicato nel 1995. Nel mezzo ci sta anche una produzione drammaturgica e narrativa. Daneo infatti fu versatile nella scrittura, oltre a poesie e romanzi scrisse anche letteratura per ragazzi. Ma la poesia è il genere a cui si è più dedicata e che forse le ha dato maggiori soddisfazioni. Basti pensare che fu notata anche da Giorgio Barberi Squarotti. Certo ci troviamo di fronte a una lirica datata, ma di qualità, in linea con certi stilemi divenuti ben più celebri come quello di Ada Negri o Alda Merini.
Una poetessa innamorata dell’amore e della luce, della natura e della bellezza. Chiamava suo marito, il pittore Renato Daneo: “Il mio re”, dove quel “re” era una chiara e metaforica contrazione del nome. Ma attenzione, Ketty Daneo, per quanto talvolta dentro una dimensione (anche) edulcorata, non era totalmente consolatoria. In fondo appariva come una dama o una fata, ma sapeva avere anche uno sguardo severo. Certo, l’amore per la natura e il paesaggio triestino si evocano in immagini tenere, languide, romantiche. Ciò non toglie ci fosse un’altra Ketty Daneo, una poetessa con gli occhi aperti sulla storia e sul mondo. A questo modo il Carso o il mare, così amati, divengono pretesto di una dimensione duplice. C’è il Carso con le sue dolci e morbide terre del bosco dove «azzurra una luce discende / dalle alte cime dell’abete».
Ma c’è anche il Carso scenario di guerra, drammi, separazioni e intolleranze come in “Notturno sul Carso” (1959). Opera in cui amore e morte divengono tutt’uno nella tragedia di due giovani divisi dai confini umani e nonostante ciò l’anelito è quello dell’unione, della condivisione: «prendi questo mio caldo sangue / e versalo nelle tue vene”, scrive la poetessa. Ma appunto, la singolarità del testo è proprio una natura onnisciente, che partecipa alla stessa tragedia dell’uomo. Ma con un compito in più, quello di ricordare. La natura quindi come rappresentante della memoria: «Misericordia di me ha il vento / mi rotola tra sasso e sasso, / come lepre afferrato /dal risucchio delle tagliuole» o ancora «il nome tuo / fiorirà dalla rossa dolina del Carso».
Natura quindi come riflesso e specchio di dolore, elemento di poetica che emerge in diverse raccolte. Daneo coniuga spesso l’evocazione di un paesaggio a chiari temi civili. Chi visita Trieste non potrà evitare di andare nell’unico lager italiano esistito, la Risiera di San Sabba. E lì, per volontà del sindaco Gianni Bartoli nel 1955, sono stati scolpiti i versi di Daneo, tratti dalla poesia omonima: «C’è in noi, dentro i cuori sarchiati/ niente, neanche pianto:/ camminiamo stentando il passo/ a filo del terrore/ per le strade che allontanano/ dalla canèa di San Sabba».
La poetessa a quel dramma dedicò un’intera raccolta, “Trieste e un lager”, scritta tra il 1945 e il 1975. Anche qui ritroviamo degli elementi di poetica ricorrente, primo fra tutti quel riverbero tra natura e stato umano. Ogni elemento descritto si fa partecipe e fonte di evocazioni, così: «la caligine della notte addensa il cielo» lì dove si può sentire «l’erba piangere» e dove non cresceranno più fiori. Insomma non solo una Trieste affrescata nell’immobilità estetica di un paesaggio da fiaba, come il personaggio dell’autrice apparentemente potrebbe far credere.
C’è sempre un sottofondo di dolore nei suoi versi, che rende il quadro ancora più amato: «Carso odoroso di pinete e bora / e sottobosco marcio, io ti amo» o rivolgendosi all’altro aspetto della città, quello marino, scrive: «porto di mare, mia città aggredita / da venti d’impeto spesso maligno, da burrasche di vita / e dolori che ricordano morte, porto di mare amato». Ombre e luci, dolore e gioia, ma nessuna sofferenza rimane sterile, da cui la vena della poesia più religiosa. Ma appunto, Daneo era una figura ossimorica, un profilo borderline a cui non manca la visione frontale, anche tragica, realista, ma allo stesso modo, la sua produzione si avvale di strutture mitologiche e fiabesche. Genere, questo, sviluppato soprattutto nella narrativa e nella letteratura per l’infanzia. Poco si sa della sua vita privata, escluso il grande amore per il marito, ma molto si sa della città attraverso i suoi versi che appunto, sapevano anche essere diretti. Non solo fiabeschi. Una carriera culminata nel 1991 con l’attribuzione del Sigillo trecentesco del Comune di Trieste e con il Premio alla Cultura assegnatole dalla presidenza del Consiglio dei ministri. —
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