Dalla “Fase 2” al “rischio ragionato“ di Draghi: i dati per confrontare un anno di pandemia
Il 4 maggio dello scorso anno, dopo un rigido lockdown, l’Italia riapriva e avviava la cosiddetta Fase 2. Abbiamo confrontato i maggiori indicatori per capire analogie e differenze tra l’evoluzione della pandemia nel 2020 e nel 2021 e la logica dietro le riaperture dei governi Conte e Draghi
Cominciò il 9 marzo e durò più di 50 giorni. La parola inglese “lockdown” entrava, nello scorso anno, nel lessico comune degli italiani. E quello che sembrava un film distopico, trasmesso dalle tv di tutto il mondo, si materializzava anche da noi. La chiusura delle attività, le limitazioni agli spostamenti e alle libertà personali, che il presidente del Consiglio Conte annunciava in una tesa conferenza stampa serale, era l’unica arma che si aveva per combattere un nemico invisibile che stava già cominciando a mietere vittime. Quando il 4 maggio si avviava la cosiddetta “Fase 2” e si annunciava l’allentamento delle misure restrittive, c’erano già stati i fotogrammi della processione funebre di Bergamo , le canzoni cantate sui balconi, i tristi appuntamenti con le conferenze stampa della Protezione Civile per contare feriti e caduti di una guerra invisibile che stava stravolgendo il Paese. Le vittime erano oltre 29mila, oltre 211mila gli italiani che si erano ammalati di Covid-19 dall’inizio dell’epidemia. Numeri sicuramente spaventosi, ma non paragonabili a quelli odierni. A un anno di distanza i contagiati (accertati) sono saliti a oltre 4 milioni, mentre le vite spezzate sono più di 121 mila. Ma se le date di “riapertura” sono grossomodo le stesse, con i pochi giorni di scarto che separano il 26 aprile dal 4 maggio, confrontando i dati epidemiologici e sanitari relativi al mese di aprile (e ai primi giorni di maggio) del 2020 e del 2021, ci si accorge di non poche differenze.
La prima è che, in termini di numeri assoluti, i contagi oggi sono nettamente maggiori rispetto a quelli registrati un anno fa. In realtà si tratta solo di una distorsione prospettica. Il dato può essere contestualizzato solo se lo si affianca a quello del numero di tamponi effettuati nel 2020 e nel 2021.
Mettendo in relazione i due parametri ci si rende conto, infatti, di come i numeri odierni siano frutto di uno screening molto più diffuso e capillare. In altre parole: si fanno più tamponi e si riscontrano più contagiati. Una pratica largamente auspicata nel corso dell’anno scorso da virologi come Andrea Crisanti. L’indice più rilevante per comprendere la differenza tra l’andamento dei contagi è quindi il rapporto tra tamponi e nuovi positivi.
[[(FckEditorEmbeddedHtmlLayoutElement) nuovi contagi]]
Se nella prima parte del mese di aprile il tasso di contagio del 2020 è nettamente superiore a quello del 2021, non si può dire lo stesso per la seconda metà. Nonostante una percentuale di vaccinati che (parliamo di prima somministrazione) supera il 20% della popolazione, da metà aprile il tasso di nuovi contagi è sovrapponibile, e non di rado supera quello dello scorso anno. Lo scorso 26 aprile, il giorno scelto dal Governo per le riaperture, il rapporto tamponi/ contagi arrivava al 5.8%; nel 2020 si fermava al 4.7%. Una dinamica che è forse il frutto forse di chiusure molto più blande, ma anche del sovrapporsi di un numero di varianti più contagiose. È il caso, ad esempio, della cosiddetta “variante inglese” che, progressivamente nel corso dell’inverno ha di fatto soppiantato il ceppo originario di Covid-19 . Già, perché nel corso di quest’anno abbiamo imparato a riconoscere diverse “varianti” del Covid-19: e se ora spaventa quella indiana, gli esperti sottolineano anche i rischi di quella sudafricana, brasiliana, giapponese e svizzera. Il virus ha insomma imparato a mutare per sopravvivere e diffondersi meglio: una variabile che influisce anche sulle riaperture, giudicate da molti come premature.
Se la curva dei pazienti ricoverati per Covid cala lentamente, ma in modo costante, come avvenuto l’anno scorso, lo stesso non si può affermare distintamente per quanto riguarda l’occupazione delle terapie intensive. Nel corso di un anno di pandemia, tutti abbiamo compreso l’importanza di questi reparti nella gestione dei pazienti Covid (e non solo). E le postazioni di terapia intensive non sono purtroppo infinite. La linea di confine è fissata al 30%: se l’occupazione dei posti letto sorpassa questa soglia, la situazione è definita “critica”. A livello nazionale, attualmente, il tasso di occupazione di queste postazioni è del 28%.
E come si intuisce dal grafico sopra, è proprio il tasso di occupazione dei posti letto in terapia intensiva a costituire la differenza più grande rispetto all’anno scorso. Il 26 aprile 2021, giorno delle riaperture, c’erano ben 840 postazioni di terapie intensive in più occupare rispetto all’anno precedente. Ma è tutta la curva del 2021 a flettersi in modo molto meno marcato rispetto a quanto avvenuto nel 2020. Le soglie di occupazione di questi reparti rimangono al limite in molte regioni, un dato che costituisce una vera e propria nuvola nera sulle riaperture.
Dati diversi si osservano invece confrontando il tasso di decessi giornalieri tra 2020 e 2021. A parte qualche rara sovrapposizione (e inversione) i due grafici tendono a non sovrapporsi. Anche nell’immediata vigilia della Fase 2, l’anno scorso, in Italia si moriva di più. Un dato sul quale potrebbe avere influito enormemente la vaccinazione delle persone più anziane e delle categorie fragili, le più esposte agli esiti più severi della malattia. Perché se nella primavera del 2020 eravamo inermi di fronte al virus, quest’anno le nostre armi si chiamano vaccini. Accelerare sulla loro somministrazione sembra l’unica strategia per vincere la guerra del nostro tempo. Una guerra che dura ormai da quasi un anno e mezzo.