Autorganizzati, invisibili e poveri: ecco i lavoratori veneti della cultura
VENEZIA. Un esercito di invisibili che sopravvivono (o meglio, sopravvivevano) con collaborazioni occasionali e con i diritti d’autore, che sfugge a qualsiasi classificazione e pertanto a qualsiasi politica di sostegno. Restano le realtà iscritte al registro delle imprese, dove però quasi un lavoratore su due in Veneto ha un reddito inferiore a diecimila euro l’anno: sulla soglia della povertà.
Sono i risultati della fotografia scattata dal Laboratorio MacLab del Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari e curata da Fabrizio Panozzo, docente di Management della cultura, dalla ricercatrice Angela Nativio, e dal data analyst Sergio Marchesini.
Obiettivo della ricerca, presentata il 5 maggio durante un incontro online, era di tracciare un perimetro del settore culturale in Veneto. L’indagine ha fatto emergere la presenza di lavoratori che non stanno necessariamente dentro le grandi istituzioni culturali, ma si collocano in una dimensione diffusa nel territorio, indipendente dai grandi processi culturali più celebrati dei grandi musei, dei teatri, delle fondazioni liriche.
Oltre e attorno a queste realtà più visibili, ci sono persone e associazioni che operano in maniera professionale ma indipendente. «Parliamo del cuore delle industrie culturali, di figure come attori, artisti, sceneggiatori, artisti visivi, scrittori, filmaker, tutti i professionisti» spiega Fabrizio Panozzo «che producono contenuti culturali. Spesso si tratta di un lavoratore che si è autorganizzato, di frequente in piccolissima impresa a conduzione familiare, tutte individualità che sappiamo presenti, ma che ora non sappiamo bene come descrivere».
Un primo elemento che emerge dalla ricerca è la carenza di dati attendibili sulla base dei quali operare delle scelte consapevoli. Le “statistiche sulla cultura” sarebbero infatti “falsate”. Si possono infatti contare le entità iscritte nel registro delle imprese (769 in Veneto) ma ce ne sono altre centinaia che operano come associazioni non-profit e soprattutto mancano gli operatori individuali che fanno produzione culturale. I numeri, per questa seconda categoria di invisibili, potrebbero essere tre volte superiori rispetto ai registrati.
«Ecco perché il nostro vero scopo» aggiunge Panozzo «era di gettare un fascio di luce nell’oscurità». Per capirne le dimensioni, certo. Ma anche con quali strumenti la politica potrebbe sostenerli in momenti di crisi come quella legata al Covid.
La ricerca analizza anche una distribuzione territoriale che vede concentrarsi la presenza del lavoro culturale indipendente nelle province di Venezia (22,3%), Treviso (21,3%) e Padova (19,9%). Evidente anche l’effetto Covid: rispetto al 2019, nel 2020 sono diminuite del 31,6% le mostre di arti visive, del 35,5% gli spettacoli teatrali e del 37,5% i concerti. Per quanto riguarda la distribuzione di attività, il 19,2% dei lavoratori culturali sono impegnati nella gestione di spazi, il 18,3% fa teatro, il 16,3% laboratori con le scuole e il 10% si occupa di arti visive.
Quasi 8 lavoratori su dieci (77,9%), poi, dicono di esercitare l’attività in maniera continuativa e solo il restante 22% distribuisce il suo impegno anche nella scuola, nei servizi o in altre attività professionali. Fatto sta che se quasi 8 su dieci lavorano solo di arte, quasi uno su due (48%) dichiara un reddito inferiore ai 10 mila euro l’anno, situandosi così sulla soglia della povertà. E il futuro non sembra tanto più roseo. Domina una sensazione di profondo pessimismo nel 24,3% degli intervistati. Il “tengo botta” è tuttavia l’espressione di resistenza che accompagna il momento nel 28% dei lavoratori. —