Andrew Koji ha appena chiuso la seconda stagione di Warrior (su Sky) ed è già stata annunciata la terza. Qui, un estratto dell'intervista di Roberto Croci, su GQ di maggio-giugno.
«Warrior non fa altro che sottolineare un problema che l’America ha con la propria identità: la costringe a guardarsi allo specchio, ricordando che è un Paese costruito sugli immigrati e che ciò malgrado vive un rapporto tormentato con chi è nato altrove. Questo tema riconduce a un concetto di razzismo sistemico in ogni istituzione: la fiction ne racconta le origini, senza voler predicare nulla». Andrew Koji, 34 anni, è anglo-giapponese. Ed è protagonista, appunto, di Warrior, una delle serie televisive americane più seguite (in Italia la seconda stagione è su Sky), ispirata alle note scritte lasciate da Bruce Lee e prodotta, 40 anni dopo, da sua figlia. Sintetizzando: è un action-drama poliziesco, ambientato a fine Ottocento nella Chinatown di San Francisco durante le Tong Wars, le guerre tra gang cinesi rivali. Le riprese, effettuate in realtà a Città del Capo, in Sudafrica, seguono le vicende di Ah Sahm, prodigio delle arti marziali che emigra dalla Cina all’America in circostanze misteriose, diventando il braccio armato di una delle più potenti famiglie della criminalità organizzata. La serie è appena stata rinnovata per la terza stagione.
È sorpreso dall’onnipresenza culturale di Bruce Lee?
«No, anzi, sono stupito del fatto che ci abbiamo messo 50 anni a realizzare un serie completamente basata su una comunità asiatica. Che poi sia stata portata alla luce proprio da sua figlia Shannon Lee è un altro merito, visto che l’unico esempio storico di tv seriale era Kung Fu, dove i dirigenti degli Studios preferirono trasformare un attore bianco, David Carradine, piuttosto che scegliere quello che sarebbe stato l’erede naturale della parte. Anche se la maggior parte degli asiatici cresce adorando l’icona Bruce Lee e i suoi insegnamenti, da parte mia sono cresciuto seguendo attori come Jackie Chan e Jet Li, e quindi devo ringraziare Warrior che mi ha fatto conoscere altri aspetti della vita di un attore che era anche un filosofo, il Mozart delle arti marziali, uno dei primi a introdurre la meditazione tra le sue pratiche e ad agire contro il bullismo. Era famoso per le sue parole contro il razzismo latente nel circoli di Hollywood, dove per decenni gli attori asiatici hanno avuto accesso solo a ruoli secondari, come il cinese, il samurai, il servo, il ninja».
Un po’ come per gli italiani che riuscivano bene a fare i mafiosi e i camerieri, oppure gli afroamericani che fino a pochi anni fa interpretavano solo gangster e protettori?
«Sì, esattamente. Ho odiato l’ignoranza e la prosopopea di chi ha la possibilità di essere ispirato dalla nostra creatività e invece vede solo la razza. Stavo addirittura per smettere di recitare, dopo 10 anni di audizioni in cui trovavo sempre le stesse facce asiatiche per lo stesso ruolo − parti che mai avrebbero arricchito il mio bagaglio di attore −, e allora ho deciso di diventare montatore, regista, stuntman e di andare a lavorare in Asia pur di non svendermi. Io, che sono cresciuto seguendo l’esempio creativo di attori come Marlon Brando, Heath Ledger, Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, io che ho studiato teatro a Londra, io che giravo e producevo i miei piccoli film indie. Adesso, grazie al successo di questa serie, vediamo che tipo di ritorno avrà la mia notorietà sulla mia carriera e il suo sviluppo, perché vorrei anche scrivere e produrre, far sentire la voce e le storie della mia comunità, proprio come Jordan Peele e i fratelli Safdie, modelli a cui aspiro. Qui in Inghilterra, se non cambia qualcosa, saranno sempre i soliti privilegiati, produttori vecchi e bianchi, a fare film già visti. Per uno show innovativo come The Chinese Detective abbiamo dovuto aspettare anni di brutte produzioni, mentre in America c’è stata un’infusione di nuova linfa grazie a giovani produttori, registi, attori, con l’esplosione di Fresh Off the Boat, Crazy & Rich, con la scoperta di talenti come Randall Park, Constance Wu, Lulu Wang, Awkwafina, Henry Golding».
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