La vita di Meran dalle violenze del padre agli spari in Questura in cui uccise i due agenti
TRIESTE Si è sentito onnipotente per una manciata di secondi. E ha sparato.
Questa è la storia di Alejandro Augusto Stephan Meran, il dominicano che il 4 ottobre del 2019 ha assassinato in Questura i due poliziotti Matteo Demenego e Pierluigi Rotta, tentando di uccidere durante la fuga altri sette agenti. Una storia raccontata dalla perizia psichiatrica che ne ha scandagliato l’anima. L’uomo, oggi trentunenne, è detenuto in carcere a Verona.
Ma chi è veramente Meran? Cosa ha scatenato la brutalità del duplice omicidio? Le risposte, o almeno le interpretazioni, esistono. Sono contenute negli atti giudiziari che Il Piccolo ha potuto consultare, la lunga perizia che il pool di specialisti ingaggiati dal gip Massimo Tomassini ha preparato dopo mesi di accertamenti sul passato dell’assassino e di sedute con lui. Un dossier di 131 pagine che ripercorre innanzitutto l’infanzia del trentunenne, abusato dal padre quando aveva otto anni. Ecco poi i primi segnali di squilibrio negli anni trascorsi in Italia (a Montebelluna e a Ponte delle Alpi), da ragazzo, e quindi il periodo a Santo Domingo e in Germania prima dell’arrivo a Trieste nella primavera del 2019. E, ancora, la tossicodipendenza da cannabis e l’attività di escort nel mondo della prostituzione maschile.
Un aspetto, questo della prostituzione, tutt’altro che inconferente con l’intero caso: la mattina del 4 ottobre Meran aveva aggredito una donna su uno scooter, ferma a un semaforo in largo Barriera. In preda a un delirio persecutorio, le aveva rubato il motorino «per scappare da un cliente albanese», che – ha raccontato il dominicano – lo minacciava armato di coltello pretendendo la restituzione dei soldi di un incontro.
Il furto del motorino è vero ed è il motivo per il quale i poliziotti si presenteranno di pomeriggio a casa dello straniero per portarlo in Questura. Ma non è accertato se Meran è stato materialmente minacciato e inseguito o se ciò era un effetto della sua immaginazione che, come hanno confermato la madre e il fratello, lo agitava fin dalla notte precedente. Sentiva «voci», aveva visioni. «Mi vogliono uccidere», urlava. E il senso di persecuzione e paura, frutto di una psicosi causata dalle violenze subite nell’infanzia – così scrivono gli psichiatri – e dalla dipendenza da cannabis, è forse la spiegazione più profonda dell’omicidio. Quando il dominicano vede i poliziotti sotto casa pensa a un complotto: in Questura agirà in preda a quel vaneggiamento. Il senso di terrore si trasforma in onnipotenza quando impugna la prima pistola.
Gli psichiatri hanno riconosciuto nell’assassino «un’infermità». E, al momento dei fatti, una capacità parziale di intendere e di volere. Il trentunenne è processabile. È di questi giorni la richiesta di rinvio a giudizio presentata dal pm Federica Riolino. La prima udienza il 7 giugno. Intanto il gip Tomassini ha respinto la richiesta di sostituzione del carcere con una misura di sicurezza provvisoria, ad esempio la collocazione in una Rems (struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi menali e socialmente pericolosi) avanzata dai difensori di Meran, gli avvocati Paolo e Alice Bevilacqua. Il dominicano resta in cella.
In questi mesi di detenzione a Verona Meran ha rifiutato le terapie e, visto il livello di aggressività, è stato sottoposto a Tso (Trattamento sanitario obbligatorio), ricoverato in psichiatria e in terapia intensiva. Un periodo drammatico, che ha costretto il personale anche a legarlo a letto, ininterrottamente, per sei settimane. Una condizione «assimilabile alla tortura», avvertono i periti, che ha rafforzato la dimensione «di persecutorietà» in cui viveva Meran.
Infanzia e abusi
La madre di Meran ha riferito che quando il figlio aveva circa 8 anni, il padre aveva preteso che Alejandro si fermasse alcuni giorni solo con lui. «Dopo quel periodo», ha spiegato la mamma, «mio figlio era terrorizzato alla vista del papà. Era timoroso e aveva accentuato atteggiamenti di tipo femminile. A scuola era oggetto di bullismo». In seguito alla morte del padre, Alejandro ha confidato alla madre che in quei giorni aveva subìto violenze e abusi. A questo proposito i periti scrivono: «Il grave episodio di sequestro e violenza, in un contesto in cui egli (Alejandro) era in totale balìa del padre violento, deve essere considerato reale quanto devastante e tutt’ora immanente». Meran ha trascorso l’adolescenza perlopiù ritirato in casa, spaventato che uomini adulti «volessero avere rapporti sessuali con me».
Tossicodipendenza e prostituzione
Nel corso dei difficili e dolorosi colloqui con gli psichiatri, il trentunenne ha affermato che sentiva «le voci» degli uomini che volevano violentarlo anche prima di iniziare a prostituirsi e che a 16 anni aveva cominciato a consumare intensivamente marijuana per sedare sofferenza e paura. Da quella volta Meran ne ha sempre fatto uso, anche cinque-sei volte al giorno. L’uomo ha dichiarato che assumeva anche crack e alcol. I periti hanno riscontrato una psicosi correlata alle sostanze. Il dominicano ha riferito di aver cominciato a prostituirsi con gli omosessuali dall’età di 17 anni. «La questione della sessualità – si legge nel dossier – ha aspetti oscuri e profondi. Veniva esercitata nella forma della prostituzione omosessuale per denaro e per piacere, forse con alcuni tratti di maniacalità che potrebbero rimandare al trauma dell’abuso e alle strategie per controllarne l’angoscia».
Psicosi e omicidi
La perizia ha accertato che i fatti sono stati commessi da Meran «in una condizione di scompenso psicotico acuto che costitutiva una delle periodiche riaccensioni di una psicosi correlata all’uso intensivo della marijuana». L’uomo ruba lo scooter convinto di essere inseguito da un cliente: in quel momento è in uno stato «di terrore psicotico». Quando vede i poliziotti e l’ambulanza sotto casa, di pomeriggio, per quanto rassicurato dal fratello (con cui ha un rapporto di «simbiosi»), cova «un ulteriore livello di allarme persecutorio». Si sente in trappola. E in Questura, recandosi in bagno accompagnato dal poliziotto, si stacca dal fratello. «La separazione accentua le sua angosce», rilevano i periti, perché Alejandro in quegli istanti perde la rassicurazione. Nessuno sa cosa succede esattamente in quel bagno. Nei colloqui Meran ha affermato di aver sentito «l’agente che caricava la pistola». Per gli psichiatri quella è stata una «dispercezione con interpretazione persecutoria». Oppure è «un falso ricordo a posteriori», cioè l’assassino «ha inconsapevolmente elaborato una ricostruzione dei fatti che lo protegge dai sensi di colpa». Quando il dominicano si appropria dell’arma del primo agente, la impugna e spara, passa da una condizione di paura e frustrazione a un senso di «onnipotenza». «È inspiegabile quello che ho sentito – ha raccontato Meran nei colloqui – mi sono trovato in un momento intrigante, tenebroso. Mentre impugnavo la pistola mi sono sentito posseduto, un Dio».
Il resto è tragica realtà. I due agenti a terra, nel sangue. E altri spari. I frame di quel video in cui si vede il dominicano che percorre la Questura e punta le armi contro altri poliziotti. Sequenze silenziose. Ma sembra di sentirli quegli spari, ancora oggi.
