Slovenia e Croazia, così l’indipendenza ha frenato la crescita della ricchezza
BELGRADO. Minore crescita economica rispetto ai tempi della Jugoslavia di Tito. E maggiore disuguaglianza, con l’1% più ricco che ha beneficiato della nascita dei nuovi Stati balcanici a discapito del 40% meno abbiente.
Il 25 giugno è stata giornata di celebrazioni, per i 30 anni da quel 25 giugno 1991 che segnò la proclamazione dell’indipendenza della Slovenia (e così accadde anche in Croazia). Anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha annunciato la propria partecipazione a Lubiana. Ma intanto, non è stato tutto rose e fiori sul fronte economico, nell’area dell’ex Jugoslavia, nei trent’anni seguiti alle separazioni di Slovenia e Croazia dalla Federazione, dalle guerre fratricide e dai massacri in Bosnia fino al tragico epilogo in Kosovo. È quanto ha svelato l’autorevole Vienna Institute for International Economic Studies (Wiiw), che ha voluto analizzare ciò è accaduto nella regione nel periodo della complessa transizione dal socialismo al capitalismo.
La prima scoperta del Wiiw conferma le difficoltà dei Paesi della regione a “ingranare”, nella difficile fase di passaggio e anche dopo. Il parametro usato dagli studiosi di Vienna è stato in particolare il Pil reale pro capite, che tra il 1952 e il 1989 - l’ultimo anno prima dell’inizio dell’implosione - era salito in media del 4,4% all’anno in Serbia, del 4,3% in Croazia, del 4,2% in Slovenia, del 4,1% nell’allora Repubblica di Macedonia e in misura meno marcata in Montenegro (3,7%) e in Bosnia (3,3%). Crescita che, dal 1990 al 2018 – lasso di tempo segnato anche da conflitti e isolamento internazionale - è risultata essere più debole. Con l’eccezione del Montenegro (salito al 3,8% all’anno in media), tutti i nuovi Stati balcanici hanno fatto peggio che ai tempi di Tito, almeno in termini di crescita annuale del pil pro capite.
Capofila nella cattiva performance la Macedonia (1,2%), seguita dalla Serbia (1,3%) sfiancata da crisi, recessioni, iperinflazioni e sanzioni. Risultati di poco migliori quelli della Bosnia-Erzegovina (2%); neppure Slovenia e Croazia non hanno brillato, con un aumento medio dell’1,7-1,8%.
Nell’epoca post-socialista altro è accaduto, di assai negativo. È scesa radicalmente, ovunque e in particolare in Serbia, la quota di reddito nazionale che finisce nelle mani del 40% della popolazione meno abbiente, mentre si apriva la forbice a favore dell’1% più ricco. In pratica, si legge nel rapporto Wiiw dedicato a “Vincitori e perdenti” del collasso della Jugoslavia, la regione ha subìto «un marcato aumento della disuguaglianza», un fenomeno relativamente marginale ai tempi della Federazione, estremamente visibile oggi. E il fenomeno è stato più marcato «in Slovenia, Croazia e Montenegro», con un aumento del 5% della fetta di reddito nazionale in mano all’1% più ricco.
Ai tempi della Jugoslavia tuttavia non era tutto perfetto: al contrario. È stato ancora il Wiiw ad analizzare le «radici economiche della disintegrazione» della Federazione, segnalando che durante i suoi 45 anni di vita la Jugoslavia non riuscì affatto a colmare le «disparità economiche regionali», che addirittura si ampliarono per poi esplodere negli Anni Ottanta, con «un progressivo peggioramento» del quadro economico. Malgrado questo non fu l’economia, con crisi e disoccupazione, a portare la Federazione al collasso, hanno stabilito gli studiosi del Wiiw: furono invece le spinte centrifughe e il nazionalismo fuori controllo. Si sarebbe potuta trovare una soluzione, a inizio Anni Novanta. «Se la Jugoslavia fosse stata fatta entrare» nell’allora Comunità economica europea, puntando su stabilizzazione economica e soprattutto democratizzazione, il Paese «si sarebbe potuto salvare», ha assicurato l’economista Vladimir Gligorov