Ecco l’undicesimo romanzo di Veit Heinichen ambientato a Trieste
TRIESTE L’undicesimo caso per il Commissario Proteo Laurenti, “Entfernte Verwandte” (“Lontani parenti”, Piper Verlag, pp. 320, € 20,00) di Veit Heinichen, è uscito in questi giorni in Germania e Austria, mentre la traduzione italiana è prevista per il 6 aprile 2022. Vi ritroviamo il commissario Proteo Laurenti - che con questa avventura compie vent’anni di vita narrativa - più in forma che mai, sulle tracce degli autori d'una serie di omicidi, gente decisa a farsi giustizia da sola per i torti inflitti dalla Storia, complicata e sanguinosa, di Trieste e terre vicine, durante la Seconda Guerra mondiale. Veit Heinichen, nato nel 1957, dopo aver fatto il libraio e l’editore (prima a Zurigo e a Francoforte, e poi a Berlino, dove nel 1994 ha fondato la Berlin Verlag), fin dagli anni ’70 s'è dedicato alla scrittura. La sua liaison con Trieste è di lunga data e da venticinque anni vive in una casa sulla costiera che fa da coulisse ai suoi romanzi editi in Italia dall’editrice e/o. Gli abbiamo chiesto di parlarci del rapporto che ha con questa sua patria elettiva, Trieste, la città “col mare in grembo e il Carso alle spalle”.
Da “I morti del Carso” a “Lontani parenti” l'ultimo della serie, Proteo è sempre lo stesso?
«Proteo è maturato e cresciuto, come tutti gli altri personaggi. È diventato forse più tranquillo, ma certamente non è meno testardo. Non è cambiato il suo senso di giustizia e il rispetto per le autorità basato sulla competenza».
E in questi vent’anni di vita di carta com'è cambiata Trieste?
«I miei libri forniscono un po' una storia dell'evoluzione della città. Trieste è cambiata in senso positivo, nel senso che s'è liberata della vecchia patina nostalgica del “nessun luogo”. Oggi vediamo che è ridiventata una città contemporanea che riesce a integrare le realtà che la circondano.
I suoi gialli hanno avuto una straordinaria fortuna a livello internazionale. Quale è la sua formula vincente?
«Se io avessi una formula i miei libri farebbero schifo. Quando scrivi non devi pensare alla ricezione, devi scrivere e basta. L'obiettivo che mi pongo col mio lavoro è di arrivare alla massima autenticità. L'enigma vive nel carattere dei protagonisti e dei luoghi. Cerco di dare voce a tutti, anche a quelle figure che non mi sono simpatiche o che detesto. Non scrivo testi demagogici. I miei romanzi non vogliono offrire risposte, ma porre delle domande».
All'inizio degli anni 2000, le trasposizioni cinematografiche dei suoi libri hanno alimentato a Trieste la fama di set ideale. Vedremo forse ancora Proteo Laurenti sullo schermo?
«Spero tanto di sì. Sono in trattative con un produttore molto rinomato romano, ma sono tempi lunghi. Vanno avanti anche quelle per filmare l'altro mio giallo ambientato a Grado, “Borderless”, con una commissaria donna, a cui è interessata una coproduzione internazionale che coinvolgerebbe cinque paesi (Italia, Germania, Austria, Croazia e Slovenia)».
I suoi lettori arrivano a Trieste armati dei suoi gialli che si trasformano in guide turistico/culinarie della città. Ha mai fatto un calcolo dell'apporto che i suoi libri hanno dato all'industria turistica locale?
«No mai, non è questo il mio obiettivo. Accade in tutto il mondo che si crei un turismo culturale sulle tracce di romanzi o dei grandi film. La letteratura in particolare è un grande magnete. Peccato che le amministrazioni locali non lo sappiano sfruttare al meglio. Penso infatti che quel tipo di turista è solvente, attento, curioso. Per Trieste capitale della cultura si dovrebbe fare molto di più».
Come aveva fatto in “I morti del Carso”, “Le lunghe ombre della morte” e altri, anche in quest'ultimo romanzo lei torna a scandagliare le buie pagine della Seconda Guerra Mondiale, qui nella fase più drammatica, quando Trieste venne occupata dai tedeschi. Leggendo il libro si scoprono tante verità scomode: tutti hanno le mani macchiate di sangue e qui nessuno è innocente. È una soluzione consolatoria?
«Assolutamente no, e questo vale non solo per Trieste ma per qualsiasi luogo, perché il male per essere fatto ha bisogno sempre di collaborazionisti. Anni fa “Le Monde” aveva definito Trieste il prototipo della città europea e lo è anche in questo frangente. Facendo le ricerche per questo libro ho scoperto che la Storia con la S maiuscola si distingue stranamente da lingua a lingua. Ho fatto ricerche in cinque lingue diverse e non c'era una traccia univoca e oggettiva. Cosa che ho trovato piuttosto squallida. Col tempo mi è venuto un sospetto, e ho visto che se qualcuno dei Paesi ammetteva qualcosa lo faceva sempre solo se proprio non poteva evitarlo. Anche l'Aufarbeitung, la “rigenerazione” del passato nazista dei tedeschi è una favola. Mi veniva il vomito quando sulla pagina tedesca di Wikipedia sulla Risiera di San Sabba ho letto che sarebbe “erroneamente definita un campo di sterminio”. Mi chiedo allora, come romanziere che cerca di dare voce ai traumatizzati dalla Storia, perché i tedeschi avrebbero dovuto mandare Odilo Globočnik e il suo team di specialisti che avevano costruito i campi di Belzec, Sóbibor e Treblinka a costruire qui un forno crematorio? La Storia diventa così uno strumento dei vari nazionalismi».
Di questi suoi 25 anni a Trieste qual'è il ricordo più bello?
«Se fosse solo uno sarebbe quasi triste, qui ogni giorno porta cose belle, con ogni cambio di luce è una nuova scoperta. Le memorie e i ricordi più belli sono molto legati a persone e a stagioni».