Buzzati: «La vita è un deserto affollato»
Nel 1972 se ne andava uno dei più originali e affascinanti scrittori italiani. Oltre le mode e le ideologie, nel suo romanzo più famoso un soldato aspetta per un’intera esistenza l’arrivo «dei Tartari». Un racconto simbolico della condizione umana con una lucidità e un’introspezione sulle nostre inquietudini di fronte al mondo, attuali come non mai.
Ha vissuto cercando di adattare una realtà ingombrante e ottusa alla sua fantasia disciplinata. Battaglia persa fin dall’inizio. Ma anche lui, nel suo pessimismo, già lo sapeva che non c’era possibilità di sconfiggere la banalità del quotidiano. Per questo Dino Buzzati si rifugiò nel romanzo che scrisse con la maestria dell’illusionista. E padroneggiando il dizionario con un’abilità rara, fu in grado di trovare in quel verbo e in quell’aggettivo gli strumenti capaci di lucidare le frasi di brillantezza.
Nacque in provincia di Belluno (16 ottobre 1906), quando la Bella Epoque lasciava ancora intendere un futuro di continua prosperità, e morì a Milano (28 gennaio 1972) vittima di un male che non perdona. E quest’anno sono già pronte le celebrazioni. I genitori - celebre giurista e docente all’Università il padre, nobildonna la madre con tre quarti di sangue blu - lo indirizzarono alla facoltà di giurisprudenza con l’idea di aprirgli uno studio di avvocato o avviarlo verso una carriera in magistratura.
Ma quale professione, se non quella del giornalista, per chi, con le sole parole, poteva architettare costruzioni straordinarie? E dove, se non nel tempio dell’informazione, all’allora mitico Corriere della Sera? Gli offrirono una scrivania che era stata disposta parallelamente a quella di Indro Montanelli ed essendo due personaggi cui non faceva difetto né l’ironia né l’autoironia occupavano i tempi morti a canzonarsi vicendevolmente.
Testimonianza diretta dei protagonisti: uno diceva all’altro «Cilindro» e l’altro rimbeccava l’uno con «Cretinetti». In quegli spazi, fra tipografia e redazione, trovò lo spunto per il romanzo che lo rese famoso. Un’intuizione che, poco per volta, andò maturando di notte quando, con il giornale già in fase di stampa, occorreva tenersi pronti per un’eventuale notizia dell’ultima ora da inserire nelle «ribattute» delle edizioni successive. Sempre all’erta - anche con un pizzico di apprensione - per qualcosa di eventuale (ma imprevedibile) da trasformare in un articolo. Il più delle volte, tutta quell’attenzione si risolveva in niente lasciando un singulto di delusione e, persino, di rammarico. Sembrava tempo perso. Anzi, buttato via. Con l’aggravante di sapere fin dall’inizio che sarebbe andata a finire in quel modo.
«Quella monotonia e quel tran-tran che scivolava via inutilmente» ricordò Buzzati «mi suggerirono l’idea di trasferirli in un mondo militare fantastico. Fu una trasposizione che venne quasi istintiva». Si dilungò per 200 pagine nel racconto di una fortezza, annegata nel «deserto dei Tartari», dove - dall’inizio alla fine - non capitava niente. Ma, «quel niente», lo rappresentò lasciando immaginare un «qualche cosa» sempre imminente, al punto da incatenare il lettore a quei capitoli di tante parole fantastiche e nessun fatto concreto. Fu quasi automatico paragonarlo a Franz Kafka che, dello stupore immaginario, era diventato il cantore. Lui non se ne gloriò e, anzi, se la prese a male. «Quel Kafka» confessò a distanza di qualche tempo - è stata la mia croce. Non c’è stato romanzo, commedia o racconto dove qualcuno non trovasse somiglianze, derivazioni, imitazioni o, addirittura, sfrontati plagi a spese allo scrittore boemo dell’inquietudine. Alcuni denunciavano colpevoli analogie anche quando compilavo (e spedivo) la denuncia Vanoni». Che era il «740» di quei tempi per la denuncia dei redditi. Si lamentò a più riprese dei critici che «avevano bisogno di collocare gli artisti in una casella e di pigiarceli a forza, anche quando i loro lavori non potevano essere contenuti nelle definizioni che loro stessi avevano arbitrariamente costruito». E, tuttavia, quel vagare di Buzzati nell’immaginifico non sarà stato mutuato nemmeno indirettamente da Kafka però, certo, rappresentò la cifra consolidata del suo modo di raccontare. Non solo per comporre pagine di romanzi fantasiosi fin dal titolo ma anche quando si trovò alle prese con il mondo della cronaca.
Per esempio: nel 1940, esploso il Secondo conflitto mondiale, fu imbarcato su varie unità della Regia Marina per documentare le operazioni della flotta italiana. Partecipò ad alcune spedizioni che si risolsero in autentici disastri. Nessuno poteva scriverne in modo veritiero perché la stampa - con il fascismo e, per di più, in guerra - doveva fare i conti con la censura che ammetteva solo cronache di vittorie. Poiché, in acqua, raggranellarono solo sconfitte, nessuno riuscì a scriverne nulla. O quasi. Lui fu in grado di sfuggire al povero censore che (di per sé un po’ cretino, in quanto censore) non riusciva a capire in quale secolo, in quale mare e fra quali schieramenti si fosse svolta la battaglia descritta da Buzzati. Perché lui andava oltre i resoconti di cronaca e, su quei fatti, costruiva una favola che affascinava i lettori. Si dedicò alla cronaca nera che, fra tutti i generi giornalistici, meglio si presta all’analisi psicologica degli autori di reati. E quindi meglio s’incontrava con il gusto di Buzzati di andare oltre l’episodio in sé per cercare cosa c’era dentro, dietro e oltre.
Gli offrirono la vice direzione della Domenica del Corriere anche se, di fatto, fu lui il numero uno del giornale. Curava l’impaginazione, controllava i titoli, guidava i collaboratori e, comprendendo l’impatto che avrebbe avuto la televisione, ricavò nel giornale uno spazio per rubriche dedicate ai programmi che andavano in onda sul «piccolo schermo».
Incrementò eccezionalmente le vendite, arrivando più volte a sfiorare il milione di copie vendute. Altri tempi. Poi tornò come inviato al Corriere della Sera che lo utilizzò per corrispondenze dal Giappone, da Gerusalemme, da New York e dall’India. Ma parallelamente coltivò la sua passione di dare corpo alla fantasia. Trovò il modo di occuparsi dell’Invasione di orsi in Sicilia, si lasciò suggestionare dal Crollo della Baliverna, fece i conti con la Paura alla Scala e - come poteva mancare? - frequentò La boutique del mistero. I suoi lavori trovarono adattamenti teatrali, vennero sceneggiati, diventarono pellicole cinematografiche.
Il tono narrativo non deve trarre in inganno. I testi di Buzzati non sono né facili né scontati. Ogni sua trama s’intreccia con i sentimenti dell’angoscia e della paura che - come cappe di piombo - premono sulla gente e ne condizionano le scelte. Il destino è onnipotente e non lascia scampo (I sette piani) anche se, talvolta, illude (L’uomo che voleva guarire). In entrambi i casi, si tratta di racconti che hanno a che fare con la malattia. In un ospedale, i pazienti vengono ricoverati, secondo la gravità della patologia, dall’ultimo al primo piano. All’avvocato Giuseppe Corte che denuncia solo piccoli problemi di salute trovano un letto all’ultimo piano. La malattia non migliora ma neppure peggiora e, tuttavia, lo fanno scendere sempre più in basso. Giustificazioni banali tipo la cortesia da assicurare a una mamma con due figli o un foruncolo che gli è spuntato sul polpaccio. Si trova al pianterreno dove abbassano le serrande che soffocano la luce e lasciano i ricoverati al buio.
L’altra storia è ambientata in un lebbrosario medievale dove Mseridon, a forza di preghiere ininterrotte, riesce a venire a capo della malattia e a guadagnarsi il diritto di tornare alla vita normale. Che, purtroppo, già al primo sguardo, si rivela peggiore di quella fra i contagiati a morte.
Perché tutto è definito e all’uomo restano briciole di autonomia. Nel Deserto dei Tartari, il medico della fortezza si sentì in dovere di redarguire il tenente Drogo. «Tutti» lo ammonì - «tutti, caro figliolo, sono venuti quassù per sbaglio. Chi più, chi meno: anche quelli che ci sono rimasti». Il destino che lo aveva suggestionato non è severo con lui tanto da assicurarne la memoria più a lungo. Di solito, un autore muore due volte: per l’anagrafe che lo depenna dall’elenco dei residenti e per il lettore che se ne dimentica in fretta per scegliersi autori più contemporanei.
Che ne è di Curzio Malaparte, di Massimo Bontempelli o di Elio Vittorini che giganteggiarono in vita? Lui - fieramente - resta in libreria contendendo copie e ricordo solo con Giovannino Guareschi che, pure, dagli scaffali dell’editoria non è mai sceso.