Circolari, cartelli e comitati: la lotta contro l’alcolismo agli inizi del Novecento in Friuli
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La Provincia nominò una commissione. Ci fu anche la proposta di “civili ristori” per togliere i vizi
UDINE. Nella storiografia del primo Novecento in Friuli, tra guerre e scontri politici e sindacali, troviamo raramente riferimenti a una piaga che colpì vasti strati di popolazione, soprattutto dei ceti più deboli e indifesi: l’alcolismo.
Nel vino, spesso di pessima qualità, e nella grappa, non raramente distillata di frodo e venefica, affondava infatti la disperazione di operai e contadini, uomini ma anche donne, al di là delle idee politiche e religiose, tutti accomunati da condizioni di vita insopportabili dove l’intontimento pareva una soluzione per la sopravvivenza. Ne derivavano invece ulteriori malattie fisiche e mentali che provocavano ancor più miseria e degrado.
Don Giuseppe Lozer, giovane pievano nei primi anni del secolo a Torre, frazione operaia di Pordenone, così descrive nei suoi “Ricordi di un prete” la condizione dei suoi parrocchiani: «Impressionava il consumo abnorme di grappa, che si beveva a decimi, a bicchieri, per uccidere, dicevano, i microbi della polvere che ingoiavano. Iniziai la lotta contro l’alcoolismo. Stampai cartelli con dati statistici sulla percentuale degli alcoolizzati ricoverati nei manicomi, negli ospedali per tubercolosi, nelle carceri, dei figli rachitici, ebeti, tarati, predisposti ad essere sempre infelici perché generati da padre alcoolizzato o ubriaco. Diffusi centinaia di copie di un opuscolo chiaro, documentato, impressionante La lotta contro l’alcoolismo non ottenne miracoli ma riuscì utile; lo si riscontrò nella diminuzione del consumo di grappa. Ma nelle domeniche, a sera, la massima parte degli operai era alticcia e allegra. Annegava nel vino la disperazione di ritornare nel domani o di giorno o di notte ad un lavoro protratto per undici ore in sale polverose e umide».
In quel periodo, il prof. Giuseppe Antonini, direttore del manicomio provinciale di Udine, avviò una serie di studi, con particolare attenzione verso l’area montana, per constatare la gravità del fenomeno e individuare i modi per debellarlo.
In seguito, nel 1911 la Provincia di Udine nominò una apposita Commissione, rappresentativa di tutte le forze politiche e di esperti, per combattere l’alcolismo. Venne diramata una circolare a enti, associazioni, aziende, medici e persone interessate individuando varie iniziative da intraprendere per raggiungere lo scopo. Della Commissione provinciale faceva parte anche il socialista avv. Giuseppe Ellero di Pordenone. In polemica con lui scese in campo, sulle pagine del “Lavoratore friulano” (riportate da G.L. Bettoli sul libro “Una terra amara”) il socialista sacilese Enrico Fornasotto. Pur senza contestare la bontà dei propositi, egli affermava con una lettera del 12 agosto 1911 che per convincere gli operai e i contadini con una propaganda ragionata e cosciente a non bere smodatamente bisognava offrire loro una vita diversa da quella che conducevano.
E proseguiva: «Fino a che l’operaio, dopo sei giorni di sudato lavoro, alla festa per premio troverà la casa brutta e malsana, nessun divertimento morale e intellettuale a portata di mano e contatti bassi e immorali in ogni dove, egli cercherà sempre l’oblio, il riposo e il divertimento nell’alcool. Così il contadino: sino a che oltre il lavoro penoso dei campi egli non avrà per svago che il salmodiare del prete, la vicinanza degli animali suoi e il disprezzo latente dei pochi fortunati che lo sfruttano, egli non potrà sottrarsi all’influenza dell’alcool, unica sua gioia».
Ellero gli rispondeva qualche giorno dopo convenendo che per togliere il popolo dal vizio e dall’abbrutimento bisognava dargli «civili ristori che gli sono negati», ma riaffermando che la Commissione non faceva del semplice accademismo ma era impegnata a dare «una coscienza collettiva».
Il dibattito era destinato a proseguire, pur da diversi punti di vista. In tempo di guerra i comandi militari avrebbero usato abbondantemente l’alcol per annebbiare le coscienze dei soldati che venivano mandati all’assalto.
Nel dopoguerra sorsero vari comitati locali per sostenere l’attività delle istituzioni e del Comitato provinciale nella lotta anti-alcolica e vennero inviate proposte di legge per privare della patria potestà e del diritto di voto chi era dedito abitualmente all’alcol e per considerare l’ubriachezza come aggravante agli effetti delle sanzioni penali.
Non mancò comunque la polemica tra socialisti e popolari anche su questo problema. All’inizio del 1922 don Lozer attaccò sul settimanale cattolico “Il Popolo” i socialisti e l’amministrazione comunale di Pordenone da loro diretta, ritenendo che fossero responsabili della diffusione dell’alcolismo poiché la Cooperativa sociale di Torre, gestita dalle sinistre, teneva aperti i suoi locali anche il sabato e la domenica con spaccio di bevande alcoliche.
Gli rispose piccato il “Lavoratore friulano”: «Sotto la marca d’una ipocrita moralità l’articolista cerca di consolarsi per la forzata chiusura per passività della bettola dell’Unione che era più un covo di beoni che un circolo famigliare».
Con l’avvento del fascismo la piaga sociale dell’alcolismo, che pur permaneva, passò sotto silenzio per non coinvolgere le responsabilità del regime che non era in grado di eliminarlo.