“Nuovo cinema Buie”: storie di convivenza nella Jugoslavia ai tempi di Tito
GORIZIA Tra gli appuntamenti del premio Amidei ce n’è uno che ci riguarda da vicino: la proiezione, in anteprima nazionale, di “Nuovo Cinema Buie”, l’ultimo documentario del regista Alessio Bozzer che nel 2017 aveva firmato “Trieste, Yugoslavia”. L’appuntamento è fissato per le 16.45, al Kinemax di Gorizia, mentre alle 18, stesso posto, il cineasta sarà il protagonista di un incontro dal titolo “Alessio Bozzer: storie di un confine fluido”.
“Nuovo Cinema Buie” dura una settantina di minuti ed è una coproduzione tra Videoest e la croata Antitalent realizzata con il supporto della Fvg Film Commission e del Fondo per l’audiovisivo del Friuli Venezia Giulia. Nell’arco dell’estate sarà presentata in alcuni festival.
L’auspicio del regista triestino è che venga poi trasmesso da Rai Storia, come il suo lavoro precedente.
Perché ha scelto Buie per questo suo nuovo documentario?
«Per puro caso. Cinque anni fa mi è capitato di prendere un caffé a Trieste con un’anziana signora, Annamaria, che peraltro già conoscevo. Tra vari aneddoti, uno su tutti mi ha colpito: Annamaria, da piccola, aveva potuto sedersi sulle ginocchia di Tito, che era giunto a Buie per visitare il nuovo cinema gestito da Leonardo, padre di quella signora. Ecco: ho cominciato a costruire il documentario a partire da questa storia. Sono andato a Buie, mi sono informato su Leonardo e sulle tante altre vicende di quella sala che, dalla sua apertura nel 1950, era diventata un punto di riferimento per la comunità».
Lei, però, non si sofferma soltanto sulla sala cinematografica...
«Mentre giravo il documentario, mi accorgevo di poter sviluppare due temi. Quindi, da un lato parlo della situazione di quella terra in un momento decisamente drammatico (la fine della guerra, il passaggio da un Paese all’altro, l’esodo, le difficoltà di integrarsi che pativano quelli che erano rimasti). Dall’altro lato, appunto, non trascuro la storia della sala che può considerarsi un simbolo di quell’integrazione, visto che al cinema andavano un po’ tutti: italiani, sloveni, croati che, molte volte, non capivano nemmeno i film in cartellone, visto che spesso erano in inglese. L’importante, però, era trovarsi in quel cinema, stare assieme. Il mio vuol quindi essere un omaggio al cinema anche inteso quale luogo fisico, con il rumore delle pellicole, i fasci di luce, le poltroncine. Appartengo infatti a una generazione che nelle sale andava ancora, mentre oggi si preferisce stare a casa, davanti alla tv se non a uno smartphone».
Che idea si è fatto riguardo la vita a Buie in quel periodo?
«Ho intervistato chi, allora, era un ragazzo. Tutti hanno affermato che all’epoca non si sentivano italiani o sloveni o croati. Semplicemente, si sentivano istriani. In fondo, in quelle terre c’è ancora una nazionalità transtatale. Per il resto, sto molto attento a dare giudizi. Ho registrato il più ampio numero di testimonianze. Spetta poi al pubblico farsi un’idea riguardo al passato. In “Trieste, Yugoslavia” mi ero anche permesso di mettere l’accento su tutti i comportamenti negativi che i triestini praticavano, talvolta di razzismo. Insomma, non è certo un lavoro filoitaliano. In “Nuovo Cinema Buie” ho utilizzato lo stesso metodo. Ho riportato voci molto differenti tra loro e appartenenti a entrambe le parti: ci sono gli italiani che avevano deciso di rimanere e i croati, fermo restando che anche le altre popolazioni dell’ex Jugoslavia non avevano vita facile, a Buie, in termini di integrazione. Tutti hanno dovuto fare un passo avanti per raggiungere un equilibrio».
Fra “Trieste, Yugoslavia” e “Nuovo Cinema Buie” c’è un elemento di continuità?
«L’utilizzo di lingue differenti. E lo trovo piuttosto divertente. Sì, in “Trieste, Yugoslavia” mi pare spassoso che i commercianti italiani inventassero un linguaggio jugoslavo per vendere i propri prodotti, mentre gli jugoslavi dicevano qualche parola in italiano per i propri acquisti. Alla fine, Trieste è sempre stata una città permeabile e ciò viene fuori in entrambi i documentari. È la meno italiana delle città. Del resto, ha sempre avuto un problema di identità. Siamo e non siamo italiani. L’Italia, qui, è arrivata alla fine».
Per il futuro, ha in mente di proseguire con i documentari?
«Li trovo molto interessanti. Permettono di utilizzare linguaggi, tecniche differenti. La fiction è più rigida e poi richiede molto più tempo. Quindi sì, vorrei continuare con i documentari, magari cambiando un po’ il mio stile e orientandomi su altre parti del mondo. E comunque quest’anno ho appena finito il mio primo cortometraggio di finzione: è una storia di fantasmi. Se, per il futuro, devo pensare a un film, un lungometraggio di fantasmi è allora il primo che mi viene in mente».