Il paradosso dei rifiuti

L’immondizia si accumula quasi senza accorgercene, come scarto delle città e delle attività economiche. Ma ciò che può essere pericoloso e oneroso, potrebbe rivelarsi un bene prezioso.

Plastica, rifiuti elettronici, scarti sanitari e da attività economiche. Siamo assediati. Il ciclo di vita dei prodotti è sempre più breve e i processi di smaltimento e riciclo non riescono a tenere il passo. Uno studio del Rif Ricerche, che arriva fino al 2020 ma è indicativo della tendenza, dice che le attività economiche nel nostro Paese producono ogni anno più di 80 milioni di tonnellate di rifiuti, con una crescita costante negli ultimi dieci anni e superiore al prodotto interno lordo. I rifiuti economici rappresentano il 46 per cento di quelli totali. Questa enorme quantità di scarti potrebbe rappresentare una risorsa se utilizzati per la produzione di energia, come accade in Germania e Francia. L’Italia invece manca di impianti ed è costretta a esportare questi preziosi materiali all’estero. Così, paradossalmente, si impiegano fondi per far sì che gli scarti vengano utilizzati altrove per trarre materie da riciclare o produrre energia che poi siamo costretti a importare.

La Campania per esempio spenderebbe ogni anno 45 milioni per esportare rifiuti, in alcuni casi anche all’estero e fuori dall’Unione europea. La sola Roma produce oltre 4.600 tonnellate di scarti al giorno (1,7 milioni di tonnellate l’anno) e il Campidoglio spende 200 milioni di euro all’anno per spedire l’immondizia in altre regioni (soprattutto nel Nord Italia) o all’estero come in Olanda, Germania o Portogallo. Eppure la Capitale ha un solo termovalorizzatore e la costruzione di un secondo è ancora nella palude delle polemiche. Secondo il Rapporto rifiuti urbani 2022 dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), nel 2021 l’Italia ne ha prodotto 29,6 milioni di tonnellate, in crescita del 2,3 per cento rispetto al 2020, e al tempo stesso è diminuito il riciclo (la percentuale si è fermata al 48,1 per cento dal 48,4 del 2020). «Stiamo sprecando fonti di energia. Le aziende energivore hanno bisogno di temperature elevate e di un combustibile che potrebbe essere prodotto dai rifiuti. In Germania la sostituzione del fossile con il combustibile che viene dalla plastica non riciclabile, è al 70 per cento, in Italia è meno del 20 per cento» afferma Antonello Ciotti, vicepresidente di Corepla, il Consorzio per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi di plastica. «Le autorizzazioni impiegano anni ad arrivare ma la tecnologia va più veloce della burocrazia. Per non parlare delle polemiche ambientaliste sui termovalorizzatori» commenta Ciotti.

Eppure la costruzione di impianti di trattamento e valorizzazione energetica dei rifiuti è fondamentale nella transizione energetica. Ma spesso l’iter per la realizzazione è molto lungo e ulteriormente rallentato da ricorsi o manifestazioni del fenomeno Nimby (Not in my back yard, «non nel mio giardino»). Il peso delle associazioni ambientaliste si fa sentire sulle decisione delle istituzioni europee. Dopo l’estate dovrebbe essere approvato il Regolamento Ue sugli imballaggi che contiene norme penalizzanti per il sistema industriale italiano del riciclo. «Bisognerebbe trovare un punto di equilibrio tra gli obiettivi estremi dell’ambiente e il paradigma dell’economia circolare» afferma Walter Regis, presidente di Assorimap, l’Associazione dei riciclatori italiani di materie plastiche. Poi sottolinea che il Regolamento punta molto sul riuso degli imballaggi e questo mette in difficoltà le industrie italiane, specializzate sul riciclo. Ogni anno vengono immessi sul mercato, secondo i dati Assorimap, oltre 2,2 milioni di tonnellate di imballaggi, raccolti circa 1,3 milioni di tonnellate e riciclati 700 mila tonnellate per il recupero di materia (circa il 25,6 per cento) mentre 200 mila vanno al recupero energetico per creare combustibile.

«Questo significa che otto imballaggi su dieci non vengono riciclati. Un ritardo pesantissimo rispetto agli ambiziosi obiettivi europei: ovvero al 2025 il 50 per cento di riciclo effettivo, e al 2030 il 55 per cento, cui si aggiunge la direttiva sui monouso della plastica che prevede per gli imballaggi un contenuto minimo del 30 per cento del riciclato» afferma Regis. C’è poi il problema delle plastiche miste, ovvero un mix di materiali che per le caratteristiche chimiche risultano praticamente impossibili da riciclare. Se sullo smaltimento della plastica la tecnologia è avanti, per i rifiuti elettronici c’è ancora molto da fare anche perché è un settore relativamente giovane e con tassi di moltiplicazione inaspettati. Secondo il Global E-Waste Monitor, ogni anno nel mondo vengono prodotte oltre 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici (Raee), che potrebbero diventare 70 milioni entro il 2030. La stima è che soltanto il 20 per cento di questi sia stato correttamente avviato al riciclo e riutilizzo, mentre la quota restante è con tutta probabilità finita nelle discariche. Solo in Italia, nel 2022, sono stati prodotti poco più di 361 mila tonnellate di questo tipo di scarti.

Si tratta di una flessione del 6,2 per cento rispetto al 2021, pari a circa 24 mila tonnellate in meno. Una brusca inversione di tendenza, come rileva il Rapporto annuale 2022 del Centro di Coordinamento Raee. Tra le cause, la sottrazione al canale ufficiale di volumi consistenti da parte dei canali paralleli e le cattive abitudini dei cittadini, così come la riduzione delle vendite di tali prodotti. Il calo più consistente (-9,3 per cento) riguarda i grandi bianchi come lavatrici e lavastoviglie che sono tra i Raee più ricchi di materie prime come ferro, alluminio e rame. I numeri riflettono il ritardo del sistema italiano rispetto ai target europei. Dal 2019 il rapporto tra i Raee raccolti in un anno e l’immesso al consumo nei tre anni precedenti, avrebbe dovuto attestarsi al 65 per cento, cioè almeno a 12 chili per abitante. È evidente che non tutti fanno la loro parte come i Comuni con la raccolta e i consumatori. Eppure questi rifiuti sono autentiche miniere. Una tonnellata di telefoni cellulari scartati è più ricca di oro di una tonnellata di minerale d’oro. In un milione di telefoni cellulari ci sono 24 chilogrammi di oro, 16 mila di rame, 350 di argento e 14 di palladio, risorse che potrebbero essere recuperate e restituite al ciclo produttivo. E ciò che non si ricicla va comunque estratto a costi sempre più alti.

Uno studio realizzato da sette organizzazioni delle Nazioni unite insieme al World Economic Forum, arriva a una conclusione inquietante: 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici gettati a livello mondiale ogni anno equivalgono a 62,5 miliardi di dollari, ossia poco meno del Pil di un Paese come il Lussemburgo. Uno spreco enorme. Si legge anche che «i Raee crescono ogni anno di 2 milioni di tonnellate, circa il 3-4 per cento, a causa dei livelli di consumo più elevati (+3 per cento annuo), del ciclo di vita dei prodotti più breve e delle opzioni di riparazione limitate». Secondo le stime in Europa, 11 su 72 articoli elettronici presenti in una famiglia media non sono più in uso o sono danneggiati. Come se non bastasse, la pandemia ha contribuito ad aumentare i rifiuti. Secondo l’Ispra, nel 2020 la produzione di scarti sanitari è cresciuta del 16 per cento rispetto al 2019, ben 232 mila tonnellate, di cui circa 208 mila pericolosi.