Così l’Ursus trainato sulla terraferma chiude un’era a Trieste

TRIESTE Dopo decenni dall’ultima grande manutenzione, e oltre un secolo di onorato galleggiamento, martedì il pontone Ursus è approdato alla terra ferma. Le sue tremila tonnellate sono state calate sullo spiazzo di cemento armato dell’area Cartubi attraverso una delicatissima operazione, durata tutta la giornata, il cui fine ultimo è evitare che questo originale simbolo di Trieste finisca prima o poi sul fondo del golfo.

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Dal fine settimana l’Ursus stazionava nel bacino 4 dell’Arsenale, sul cui fondo era stata zavorrata la gigantesca chiatta semisommergibile Ant, di proprietà di Cartubi e Fincantieri. Svuotando gradualmente il bacino, l’Ursus è stato adagiato gentilmente sul ponte di Ant.

Lunedì il bacino è stato riempito nuovamente affinché martedì, poco dopo l’alba, lo strano metapontone potesse prendere il mare. E così è stato: spinto fuori dal bacino con un sistema di cavi d’acciaio e verricelli, l’accrocchio di chiatte è stato poi accompagnato dai rimorchiatori verso la sua destinazione nell’area Cartubi.

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Concluso il delicato trasferimento, è stata la ditta Fagioli – specializzata in trasporti eccezionali – a curare lo sbarco: le maestranze hanno posizionato cinque carrelloni, detti millepiedi, sotto allo scafo dell’Ursus, sollevandolo.

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Nel pomeriggio i millepiedi, un passetto alla volta, hanno iniziato a muoversi per trasferire il pontone a terra facendolo passare su una rampa di lamiera. Più grande è la massa che si vuole spostare maggiore è la precisione che si richiede nell’operazione: la conclusione dello spostamento era attesa fra la serata e la notte, maltempo permettendo.

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Come riportato su queste colonne nei giorni scorsi, il trasloco dell’Ursus è dettato da necessità stringenti: da tempo ormai il pontone era pericolante, e l’Autorità portuale che ne è proprietaria aveva individuato nella carena delle falle che avrebbero potuto portare al suo affondamento. È per questo che con una gara da oltre un milione di euro è stato affidato l’incarico per lo spostamento e per la realizzazione dei lavori edili necessari alla sua messa a terra sullo spiazzo in cemento armato rinforzato dell’area Cartubi (che con la Pertot si è aggiudicata i lavori).

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Tirano un sospiro di sollievo le persone che per anni se ne sono prese cura. È una storia che vale la pena di ricordare. I lettori di memoria lunga ricorderanno forse che nel 2004 Fincantieri donò l’Ursus (ormai in pensione da un decennio) alla Guardia costiera ausiliaria regionale, per evitare che venisse demolito. L’associazione di volontariato non sapeva allora che avrebbe finito per accudire l’orso per tre lustri: attraccato davanti al Porto vecchio, il pontone ha fatto perdere il sonno ai suoi curatori più di una volta, la più eclatante delle quali è la celebre grande fuga del 2 marzo 2011, quando l’Ursus ruppe (complice la bora e le onde) le catene che lo legavano alla terra ferma e prese la via del libero mare, prima che i rimorchiatori riuscissero ad acciuffarlo.

Il presidente della Guardia costiera ausiliaria Fabrizio Pertot ricorda quei tempi. «Sono stati anni impegnativi e difficili», afferma: «Ci abbiamo messo l’anima e, personalmente, messo anche mano al portafogli. Croce e delizia per un’impresa sicuramente più grande di noi ma che abbiamo affrontato con impegno e passione. Ci rimarrà la soddisfazione di aver scritto una bella pagina di storia della tradizione marittima della nostra città».

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Gli fa eco il suo predecessore Roberto de Gioia: «Più volte sono stato citato come il “papà dell’Ursus”: no! In realtà sono stato il padre di una bella famiglia di volontari, quelli della Guardia costiera ausiliaria, che non si sono mai risparmiati e anzi si sono prodigati all’inverosimile per la sua salvezza». Oltre a De Gioia e Pertot, tra i volontari vanno ricordati Vladimiro de Noto, Roberto Sangermano, Sabrina Iogna Prat, Renato Fonda, Romolo Bartoli e il compianto Lorenzo Casti. Quale che sia il futuro di Ursus, senza di loro non sarebbe stato possibile.