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Май
2024

Giuseppe conte l'inquisitore

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Il primo «vaffa» non si scorda mai: Giuseppe Conte si scatena e torna a comiziare su «nuove Tangentopoli» o «una questione morale nazionale», a uso elettorale. Peccato che, da Virgina Raggi a Beppe Grillo, sorvoli sugli assortiti guai giudiziari dei 5 Stelle...

Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, rinviato a giudizio per il caso Cospito? Via! Il ministro del Turismo, Daniela Santanchè, nei guai per le sue società? Lasci immediatamente! Quello dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, reo di aver chiesto sul treno una fermata fuori programma? Guadagni l’uscio pure lui. Dimissioni per tutti. Da mesi, il Torquemada di Volturara Appula punta il dito soddisfatto. Ma adesso, davanti alla vanziniana inchiesta ligure, il suo giubilo diventa irrefrenabile: il governatore, Giovanni Toti, avrebbe favorito scio’ Aldo Spinelli, il terminalista più liquido e spumeggiante di sempre.

Mentre ancora i cronisti si lagnano per la sterminata ordinanza appena ricevuta, Giuseppe Conte già indossa l’ermellino e sbatte il martelletto di legno: ci sono già «fatti precisi» per cui chiedere, ovviamente, il confino del presidente. «Ferita grandissima alla democrazia» bercia Giuseppe Conte. «C’è una nuova e diffusa Tangentopoli» arringa. «Una questione morale nazionale» sentenzia. In pieno delirio manettaro, si scapicolla perfino in piazza a Genova, ricevendo bordate di fischi. Il seguente congresso dell’Associazione nazionale magistrati, invece, lo acclama come un eroe. E cinto dall’affetto dei colleghi acquisiti, l’epurator la spara gigantesca: «C’è un progetto di rinascita democratica della P2».

Ci arrendiamo. Porgiamo preventivamente i polsi. Il capo dei Cinque stelle, in assenza di folgoranti intuizioni, torna alle coreografiche origini. Politici ladri in galera e partiti indegni. Vaffa a tutti. Dopo aver annichilito il francescanesimo con l’arcitalianità, Giuseppi riesuma il giustizialismo grillino. E cerca di nobilitarlo soffiando la «questione morale» di Enrico Berlinguer al Pd, fustigato per la Suburra pugliese e la Votopoli piemontese. Non per convinzione, ovvio. È solo l’ultimo travestimento del re dei trasformisti. Il potere logora chi non ce l’ha. E Dio solo sa quanto la smania di tornare a Palazzo Chigi lo arrovelli. Continuano a definirlo «un ex premier per caso»: ultima Giorgia Meloni, ospite al «Giorno de La Verità». Lui invece vuole dimostrare che la sua nomina non è stata uno scherzo del destino. Così, ecco l’ultimo camaleontismo. Da avvocato del popolo a pm del popolo. Che blasfemia. Conte, come al solito, è pronto a tutto. Persino a rinnegare il suo passato da principino del foro. Tre gradi di giudizio? Macché. Basta un brogliaccio o un’intercettazione per il verdetto. Eppure, è un azzeccagarbugli di talento prestato alla politica. Dovrebbe essere un ultra garantista. E in effetti lo è, ma solo con gli amici e gli amici degli amici.

La doppia morale di Giuseppi diventa, come le sue interpretazioni, prêt-à-porter. Quando riceve un avviso di garanzia per il ritardo della zona rossa nella bergamasca, inchiesta poi archiviata, non fa un plissé. E non fiata davanti all’indagine che coinvolge il suo più fedele scudiero ai tempi di Palazzo Chigi: Domenico Arcuri. Un mese fa la procura di Roma chiede la condanna a 16 mesi, nel processo con rito abbreviato, per l’ex commissario straordinario all’emergenza Covid. L’accusa è di abuso d’ufficio per una fornitura di mascherine dalla Cina commissionata nella prima fase della pandemia, in piena epoca giuseppina.

Virginia Raggi, ex sindaca di Roma, una settimana fa viene invece rinviata a giudizio per calunnia e false informazioni rese ai pm sul bilancio della municipalizzata Ama. Per non parlare di Chiara Appendino, che guidava la giunta torinese, condannata in primo grado e in appello per «omicidio, lesioni e disastro colposi». La tragica gestione di Piazza San Carlo, durante Juventus-Real Madrid del 2017, causa due morti e 1.500 feriti. Quisquilie. Conte la schiera nel 2022 capolista alla camera in Piemonte, per poi nominarla addirittura vicepresidente del partito. Al momento di rimpinzare le liste di fedelissimi, il ciuffo corvino dell’ex premier non si scompiglia nemmeno davanti alla scoppiettante indagine per frode che coinvolge il deputato calabrese, Riccardo Tucci. Viene comunque ricandidato. Adesso Tucci è a processo. Grazie alla clemenza del leader inquisitore, siede ancora a Montecitorio. Da dove, a dispetto delle accuse per beghe fiscali, pontifica su salario minimo e dignità dei lavoratori.

Con gli avversari, però, il leader grillino è implacabile. Dimissioni, dimissioni. Il bieco Toti, per esempio, non può restare un attimo di più. Eppure, le accuse dei pm genovesi al governatore riecheggiano quelle dei colleghi milanesi a Beppe Grillo. Il fondatore dei Cinque stelle è indagato per traffico di influenze illecite, insieme a Vincenzo Onorato. I magistrati gli contestano alcuni contratti pubblicitari con Moby, società dell’armatore napoletano: 240 mila euro, tra il 2018 e il 2019, per far promozione su social e blog dell’ex comico. Sarebbero il veicolo di una «mediazione illecita» verso «parlamentari in carica» mai indagati. Il 12 giugno 2019 Grillo, per esempio, scrive all’armatore: «Ho convinto Toninelli a occuparsi della questione a Bruxelles». Il seguente incontro con lo scintillante Danilo, allora ministro dei Trasporti, sarebbe andato benissimo. Ma quando il suo dicastero non versa più la sovvenzione statale, Beppe spiega di aver «attivato», oltre a Luigi Di Maio, ancora Toninelli. Che, anche questa volta, si adopera: «Dovrei aver risolto». Ma non tratta solo di concessioni. L’imprenditore il 24 ottobre chiede di intervenire con Unicredit, che gli impedirebbe la vendita di due navi. Grillo gli invia il contatto di Stefano Patuanelli, allora ministro dello Sviluppo economico e attuale capogruppo del Movimento a Palazzo Madama. Che s’interessa all’amministrazione straordinaria, come per altri casi tra l’altro. Quella del fondatore è una «mediazione illecita», ipotesi della procura, o l’innocuo interesse per un amico in ambasce?

Insomma, una dinamica che potrebbe ricordare persino l’interessamento di Toti per sciò Aldo. Supposta colpa che, nel frattempo, Grillo sembra comunque aver depenalizzato. Nell’ultima prova teatrale, parla proprio del porto genovese: «C’ho lavorato pure io. Rubavano tutti, ma funzionava tutto. Il sale, lo zucchero, il caffè, qualcuno magari un televisore arrivato dalla Cina. Ma nessuno si è mai arricchito. Era meraviglioso». Titolo dello spettacolo: Io sono un altro. Viste le vicissitudini giudiziarie, compreso il processo per violenza sessuale al figliolo Ciro, dev’essere davvero così.

Nel frattempo, il nuovo Giuseppi si incarna nel vecchio Beppe. Solo i devoti trascorsi, compresa la venerazione per Padre Pio, lo salvano dall’irrefrenabile turpiloquio che per un ventennio ha contraddistinto lo scatenato fondatore. Per il resto, manette. Al repertorio s’è aggiunto di recente il vessillo dell’antimafia. Alle ultime politiche, per puntellare il montante giacobinismo, Conte aveva già candidato due ex magistrati di fama. Così alla Camera ora siede Federico Cafiero De Raho, ex procuratore antimafia. E al Senato furoreggia Roberto Scarpinato, già procuratore generale di Palermo, che ultimamente si distingue per un’apocalittica intervista sul Fatto quotidiano: «Il caso Liguria insegna: siamo una cleptocrazia».

Per le imminenti europee viene invece arruolato Giuseppe Antoci, ex presidente del parco dei Nebrodi, vittima di un attentato a maggio 2016. E, da quel momento, indiscussa e attivissima icona. Tanto da meritare l’onorificenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Anche se la commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana, guidata da Claudio Fava, figlio del giornalista ucciso dai boss, nel 2020 riformula: piuttosto che un attentato, sembrano più probabili l’«atto puramente dimostrativo» o la «simulazione». A sua volta Giuseppi, per rendere credibile l’ultimo travestimento, s’è catapultato il primo maggio a Portella della Ginestra, luogo simbolo della lotta a Cosa nostra.

In vista della tornata per Bruxelles, l’inflessibile s’è comunque premurato di tacciare di indegnità pure i supposti alleati piddini, turlupinando la povera segretaria Elly Schlein, che si professava «testardamente unitaria». Con moderazione, però. Il capolavoro è la Suburra pugliese che travolge i dem, voti in cambio di favori. Prima il Torquemada foggiano fa saltare le primarie per il sindaco di Bari. Poi esce dalla giunta regionale. Infine, si premura di non far votare ai suoi la mozione di sfiducia al governatore, Michele Emiliano: «Per non aiutare la destra». Ma come? Niente dimissioni? E le ignominiose accuse ai suoi assessori?




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