La sacra monumentalità del Cavalier D'Arpino

Si parla poco di Giuseppe Cesari, detto Cavalier d’Arpino. Meglio, non se ne parla affatto nel novero dei pittori famosi e conosciuti; spesso si lega al nome tonitruante di Caravaggio come suo maestro romano, nel momento più importante della vita dell’artista lombardo; spesso ritorna, con tutta la meritata considerazione, nelle valutazioni degli studiosi. Italiano ormai, e cittadino di Arpino, e presto cavalier della Repubblica, come lui, è il decano degli studi sul Cavaliere, lo storico dell’arte tedesco Herwarth Rottgen, che ne ha ricostruito il lungo percorso dal 1568 al 1640. Un altro pittore, Giovanni Baglione, scrive del Cavaliere: «Di buona complessione, e di gran lena,... poco stette ammalato,... era presto di passo, fiero e bizzarro... allegro, faceto, e libero di sentimento». Ma allo stesso tempo lo descrive con tutte le caratteristiche dell’eterno scontento e lamentoso. Giovanni Pietro Bellori nella nota alla stessa pagina del Baglione aggiunge: «Diceva sempre male di Spagnuoli et di preti da quali haveva ricevuto tanti benefitij sin da fanciullo».

La sua pittura, nella sua tendenza graziosa ed erotico-sentimentale, si colloca tra la «maniera» e il barocco, ed è, nello stesso tempo, esemplare dell’arte rappresentativo-cerimoniale dell’epoca di Clemente VIII. Soggetti mitologici e religiosi sono i suoi temi prevalenti, e la sua vasta produzione consente di vederlo apparire con crescente stupore per le sue doti di pittore e disegnatore. Alcuni suoi sorprendenti e notevoli inediti arricchiscono il suo catalogo e si presentano qui per la prima volta. Guardiamo il suo dinamico Padre eterno, olio su tela, cm. 65x70, in cui si sente la formidabile discendenza da Michelangelo nella apertura prospettica delle braccia in una tensione dinamica inconsueta accentuata dal movimento avvolgente dei panneggi. Il Padre eterno del Cavaliere vola trasmettendo energia con una efficacissima invenzione che conserva monumentalità anche nelle piccole dimensioni. Una soluzione squillante nei colori michelangioleschi della Cappella Sistina, pensata verso il 1585-90. Non meno originale un altro inedito riapparso in Francia, un’Estasi della Maddalena, olio su tela, cm. 66x65, di poeticissima concezione con una sensualità della santa nuda sollevata dagli angeli che toglie all’idillio sostanziale della meravigliosa composizione ogni residuo religioso, per trasferire l’episodio in una dimensione mitica. Mirabile anche il paesaggio nel quale si riconosce il golfo di Gaeta, richiamo alle proprie terre.

Il Cavaliere apre la strada, come al realismo caravaggesco, all’idealismo di Guido Reni che con lui si formò arrivando a Roma tra 1599 e 1600. L’Estasi è databile verso il 1595. A uno spirito religioso codificato nella definizione di un moderno paradigma per una pala d’altare, afferisce il bozzetto con San Carlo Borromeo che presenta Rosa da Lima a Cristo e alla Vergine, olio su tavola, cm 82x60. Il dipinto è tratto dall’opera omonima e delle stesse dimensioni, conservata a Roma nella collezione dei principi Colonna. Anche qui la composizione solenne si apre sopra un largo rarefatto paesaggio di Ciociaria verso Formia. E la concezione monumentale, quanto semplificata, ci porta verso il 1610.

Un altro dipinto con il Cristo fra angeli compianto da Dio Padre, olio su tela, cm 66x50, va messo in relazione con la tavola di più piccole dimensioni (cm 54,4x44) della collezione Cavallini-Sgarbi, riproponendo lo stesso soggetto secondo una trattazione quasi identica. Sono opere potenti della prima maturità, verso il 1605. Il soggetto fa riferimento all’iconografia del Thronum Gratiae, più volte affrontata dal Cavalier d’Arpino, con la rappresentazione della Trinità nella quale Dio Padre viene di regola rappresentato frontalmente mostrando Cristo crocifisso in presenza della colomba dello Spirito Santo. In questo senso, le parentele più strette con l’invenzione del Cavalier d’Arpino sono dipinti coevi quali la Trinità di El Greco per Santo Domingo de Silos o quella di Ribera al Prado, dove il Padre viene umanizzato attraverso la condivisione del dolore per il riscatto dell’uomo dal peccato originale. Rispetto a queste opere, l’invenzione del Cavaliere si concentra a tal punto sul rapporto muto, ma accorato fra Padre e Figlio da rinunciare a qualsiasi riferimento allo Spirito Santo, a meno di non volerlo scorgere nella luce dagli aloni dorati, da primo crepuscolo mattutino, che circonda il capo di Dio per poi smorzarsi meravigliosamente a poca distanza da esso, contribuendo a rendere l’atmosfera della scena di particolare intensità emotiva.

I due angeli, che hanno esentato il Padre dal sostenere il corpo di Cristo disponendolo, prima di dedicarsi alla contemplazione, in una seduta a trono dalle tonalità azzurrate pressoché invisibile nella tela, godono anche di un’altra fonte di illuminazione, frontale e più fredda, catturata dalle pieghe metalliche dei tessuti e dal pallido cadavere il cui volto si è irrigidito sull’espressione del trapasso, come se la luce di luna sul davanti fosse quasi sopraffatta dalla luce di sole che sta venendo da dietro. La posa alla fine assunta dal corpo seminudo del Figlio è parente stretta di quella dell’Allegoria del silenzio negli affreschi in volta della Certosa di San Martino a Napoli (1589-95 ca., lavori conclusi da Bernardino Cesari, fratello di Giuseppe), la cui parte superiore, ammantata nelle spalle, potrebbe ricordare anche la frontalità del Padre così come nel Compianto, quasi che lo spunto derivabile dall’iconografia del Thronum Gratiae fosse stato condensato nella definizione di un’unica figura.

Va però notato che la versione su tela del Compianto di Dio Padre sul Cristo morto mostra maggiore attinenza a disegni preparatori o di semplice studio dovuti con certezza al Cavaliere, assicurandoci che dal suo ambito stretto essa deve essere provenuta. Si allude in primo luogo a un tardo disegno a matita nera e rossa, pastello ocra e bruno, gesso, mm 389 x 262, oggi alle Staatliche Kunstsammlungen di Weimar, raffigurante un Busto giovanile con mano sul petto che, per motivi non altrimenti giustificati, si è supposto riprenda le fattezze di un figlio del Cesari. Piuttosto, gli occhi dell’angelo di sinistra così come di quello in sua controparte non sono rivolti in avanti come nel disegno, ma in basso come succede in una Testa di un uomo barbuto a matita nera e rossa, mm 244x189, oggi a Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett, altro disegno del Cavaliere. È presumibile, allora, che la tela del Compianto, anche quando propriamente non fosse considerabile preparatoria, riproduca l’invenzione del Cavaliere secondo stilemi come quelli del Cristo compianto dalla Madonna e Sant’Andrea che viene fissata in un modello di massima anche nei colori oltre che nel disegno, di cui la tavola della collezione Cavallini-Sgarbi propone una versione concentrata tanto nella composizione quanto nella resa espressiva, secondo modalità che nell’organizzazione del lavoro all’interno dell’«industria» pittorica erano comuni quando si provvedeva a trasporre l’invenzione originale in un formato ridotto. La laboriosa attività del Cavaliere continua a stupirci.