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Июнь
2024

Federer: Twelve final days, il discorso del re che ha commosso il mondo

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Avrebbe voluto giocare per sempre, ma quel momento è arrivato e io sarò al suo fianco” cit. Mirka Federer.

“Twelve final days” non è un documentario: è il ritratto di un uomo, Roger Federer, costretto a fare i conti con l’ineluttabile. È la genesi dell’addio, la messa in opera di un momento così intimo da non meritare di restare chiuso nel cassetto dei ricordi personali: quando sei l’atleta che ha fatto i conti con la storia dello sport, non puoi permettertelo.

E dunque cos’è? In primis è un racconto, firmato da uno dei più grandi ritrattisti contemporanei,  Asif Kapadia (in co-Regia con Joe Sabie), premiato dall’Academy per il film ritratto su Amy Winehouse (Amy), che ha avuto l’arduo compito di mettere insieme il puzzle delle emozioni non soltanto di Federer, ma di tutto ciò che ruota intorno alla figura del tennista ancorché dell’uomo: da Mirka, ai figli, dai genitori, alle donne e uomini di fiducia del proprio entourage. Un lavoro potenzialmente titanico, dall’alto potenziale di rischio. Non è facile raccontare gli ultimi 12 giorni da atleta di un campione trasversale, che unisce e non divide, la cui figura è l’emblema di qualcosa che va oltre la semplice raffigurazione di ciò che rappresenta: se è vero, com’è vero, che lo sport sopravvive alle ere e i giocatori, rinnovandosi e rigenerandosi, affrancandosi dalle proprie icone, esistono delle eccezioni. Roger Federer è una di queste. Come Michael Jordan, come Ayrton Senna, come Nadia Comaneci. Oltre ogni livello.

Bene, il risultato di questo lavoro è ciò che ci aspettavamo: sono i primi 25 minuti a fare la differenza di un montato complessivo di un’ora e 40 minuti. È il momento, a nostro giudizio, più emozionante, perché racconta ciò che è stato quando nessuno si aspettava ciò che sarebbe stato, quello che sarebbe accaduto. È il racconto di una lettera che ha scritto la parola fine, “To my tennis family and beyond” per intenderci; tutti momenti che altrimenti sarebbero rimasti confinati tra le mura ginevrine della Roger Federer Foundation e che invece sono donati a chi ne sa cogliere la vera essenza: perché è vero che esistono motivi ben più importanti per versare una lacrima, ma le emozioni non hanno voce (cit.), seguono dei percorsi che toccano le corde del cuore e non possono essere soggette a giudizi terzi. Quindi, sì…si piange. 

Piangono tutti, all’inizio, in quella parte della storia che nessuno conosceva e si finisce piangendo, con la parte invece che tutti abbiamo visto. Ecco, è propria quella la parte che forse rallenta un po’ il racconto. Tutti momenti che più o meno sono noti, in cui manca l’effetto wow: sai cosa stai per vedere e lo fai con la consapevolezza che l’emozione in presa diretta di quella sera è emotivamente più forte del racconto: abbiamo già visto tutto. C’è poi, chi come chi vi scrive, lo ha ancora registrato sul proprio decoder, ma questa è un’altra storia. Questa invece è una storia che si svolge nell’era dei social, l’era delle emozioni veloci ed immediate e che ha permesso di vedere, in quel settembre del 2022, tante facce di una medaglia, alcune di queste più coinvolgenti di quelli del racconto in questione. Le lacrime di Mirka, delle gemelle, di mamma Lynette e papà Robert e poi quelle di Rafa le abbiamo viste e vissute, le abbiamo riviste e rivissute volentieri; come quando sai quale regalo troverai sotto l’albero: ne sei consapevole ma è comunque una bella emozione. Una sorpresa le lacrime di Djokovic: così, non le avevamo viste quella sera.

Ricordiamo tutti, tutti quelli che in quei giorni erano insieme a Roger: Nadal, Djokovic, Murray su tutti e poi Borg, McEnroe. I primi compagni di una vita sui campi, i secondi dei miti prima del mito. Ed è proprio il passaggio su Borg, un altro dei momenti significativi. “Non farò come lui” dice Roger, con quell’aria di chi scherza, ma non troppo. Borg si è ritirato a 28 anni, provando a sparire e provando a distaccarsi da ciò che è stato: “non mancherò da Wimbledon per 25 anni” è il mantra di Roger riavvolgendo per tutto il tempo il filo conduttore che altro non è che la conclusione della sua lettera: “Finally, to the game of tennis: I love you and will never leave you”. C’è stato, c’è e ci sarà.

Le scene finali nello spogliatoio, dopo il doppio con Nadal, sono quel passaggio che aggiunge qualcosa in più al racconto. È un altro momento mancante di quella intimità che prima era famigliare e che adesso è sportiva, e che colma quelle lacune, restituendo al mondo di Roger, che gira intorno a Roger, il quadro completo di quei momenti. E sì, si piange anche qui.

In conclusione, ne consigliamo la visione; lo faremmo indipendentemente dall’essere appartenenti alla cerchia dei veneranti del tennista di Basilea. È la fine di un lungo viaggio che è stato il suo, ma un po’ anche quello di tutti noi, è la pagina finale di un libro che abbiamo visto scrivere in tutti questi anni, accompagnando la sua vita e la nostra: la sua gioventù, la nostra gioventù. Rimarrò nel tennis, non sparirò”, lo ha detto più e più volte in vari momenti di quegli ultimi giorni da tennista. Impossibile sparire. Il ritratto video, questo ritratto, è la cera lacca sulla lettera del suo futuro.

In un’epoca di re del tennis, il capostipite saluta e noi salutiamo Roger Federer, il migliore che abbiamo mai visto”.




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