Jessica Rossi: «La grammatica dell'errore»
Jessica Rossi è la prova che la perfezione quasi esiste: alle Olimpiadi di Londra 2012, nella gara di qualificazione al gran finale per il tiro al volo, ha colpito 75 piattelli su 75, stabilendo un nuovo record del mondo. Fare meglio sarebbe stato impossibile.
L’oro è poi arrivato con un’altra apoteosi: un punteggio di 99 su 100, la sbavatura di un piccolo sbaglio, la natura terrena di una forza sovrumana. Non tanto la macchia di quel minimo errore, quanto la capacità di lasciarselo subito alle spalle.
«L’aspettavo, non lo temevo. L’ho riconosciuto e l’ho salutato con un sorriso. La mia formazione si basa sull’accettarlo, sul conviverci. Il piattello più difficile non è quello che manchi, è il successivo» racconta Jessica, consapevole di pronunciare una massima piena di realtà. Una di quelle che rende lo sport tanto potente perché sovrapponibile allo scorrere di una vita normale, al cadere e il rialzarsi fuori dallo straordinario di un’arena, la tensione di una competizione, l’urlo liberatorio per una vittoria.
Le Olimpiadi sono vita all’ennesima potenza, sia nell’ardente frenesia di un debutto sia per chi si prepara a farsi travolgere una volta e un’altra ancora: «Sono l’apice di una carriera, il momento più alto al quale un atleta possa aspirare. Anche se per me sarà la quarta partecipazione, varrà come la prima».
La ragione è innanzitutto il calendario: «Non mancano gli appuntamenti con i campionati europei e mondiali, le Olimpiadi cadono ogni quattro anni. Sono eccezionali a cominciare dalla loro frequenza. Già il fatto di esserci, di qualificarsi, è un traguardo. Per non parlare dell’entusiasmo che le accompagna, pure per discipline che generalmente non riempiono gli spalti, non attirano il tifo».
Per chi pratica il tiro a volo, è una mezza virtù: l’eccessivo rumore potrebbe essere un ostacolo, se non addirittura un nemico. L’obbligo è cancellare il mondo, svuotare la mente dal frastuono, regolare il ritmo del proprio respiro, tenere lontano dalle orecchie ogni accenno di brusio. Allenarsi all’insolito per renderlo un sottofondo familiare: «Prima di andare a dormire, costruisco i momenti delle gare nella mia testa. Così non mi sorprendono, perché nella mia immaginazione sono già lì, sono accaduti milioni di volte».
Eppure, qualche situazione rimane impronosticabile, è talmente intensa da restare irriproducibile nei laboratori del proprio pensiero. È l’irruenza dell’inaspettato. Jessica Rossi ne è stata testimone oculare per due volte: a Londra, quando si è ritrovata la medaglia attorno al collo, tanto tangibile e presente da non poter fare altro che morderla. «E poi sentire suonare l’inno, nelle orecchie e nel cuore. Mentre lo canti, parola dopo parola, capisci di avere fatto qualcosa di grande».
L’altro spiazzamento accade a Tokyo, durante la scorsa edizione delle Olimpiadi, quando il Coni le chiede di fare da portabandiera: «Noi atleti siamo già abituati a rappresentare il nostro Paese, abbiamo la maglia della nazionale addosso, ci sentiamo parte di un movimento. Ma vedersi affidare il tricolore è un sentimento inarrivabile. Lo confesso: lo metto persino sopra l’oro. Regala una fierezza ancora maggiore. Per me, almeno, è stato così».
Rossi è figlia d’arte: il padre le ha trasmesso la passione (e l’ossessione) per la polvere rosa, quella che si sparge nel vento quando un piattello viene colpito. Per lei la madre è arrivata a intestarsi un porto d’armi, finché da maggiorenne Jessica non ha potuto ottenere il suo personale: «La cosa ha i suoi pro e i suoi contro. Provo tanta gratitudine nei loro confronti, ma in casa si finisce sempre per parlare di sport».
Alle Olimpiadi nessuno dei due genitori è mai andato a sostenere la figlia: «Al principio per lasciarmi tranquilla alla prima esperienza, poi per la lontananza geografica delle edizioni successive, in Brasile e in Giappone». In generale, in verità, per un po’ di scaramanzia: «Diciamo che quell’assenza è un rito di famiglia» spiega la campionessa, usando la stessa abilità con cui centra il bersaglio per schivare la domanda sulla voglia di ripetersi in Francia, di prendersi un’altra medaglia, complice anche l’ottimo stato di forma dimostrato nelle uscite recenti. «L’importante è arrivare al massimo, poi si vedrà cosa accadrà. Sono soddisfatta di come sto lavorando, ma essere al top e fare una grande gara non significa necessariamente vincere l’oro. Di mezzo c’è dell’altro».
C’è la capacità di metabolizzare uno sbaglio, non demonizzarlo, trasformarlo nel più prezioso alleato: «Non bisogna farsi schiacciare, ma superarlo. Ancora oggi, dopo tutto questo tempo, quel mio unico errore di Londra rimane il ricordo più autentico, l’emozione più bella». L’ultimo attimo di normalità, prima dell’inno alla gioia.