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Июль
2024

Buffa e il “Kobe Experiment”, l’epopea del Black Mamba a Montagnana

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C’è un compagno di squadra perfetto per Kobe, lo ripete più volte Federico Buffa. È Sasha Vujacic, sloveno di Marburgo, sei anni e due anelli con la maglia dei Lakers. È il compagno perfetto per Kobe per un motivo molto semplice: parla italiano – a Los Angeles arriva dopo tre anni a Udine, e peraltro poi passerà anche per Venezia e Verona – e con Sasha il buon Kobe può dire di tutto: anticipare verbalmente uno schema e persino offendere gli arbitri durante una partita, se non qualche avversario. Mica poco, nel campionato in cui il trash-talking è quasi un fondamentale.

Ecco, Kobe e Sasha parlano la stessa lingua. Ed è un po’ quello che è accaduto per una settimana a Montagnana: per sei intense serate, dall’11 al 16 giugno, sui gradini dell’arena Martinelli-Pertile della città murata padovana si sono seduti esclusivamente appassionati che parlano la stessa lingua di Kobe. Il Black Mamba, certamente, li avrebbe voluti tutti in squadra, fosse stato lì a decidere un quintetto. Il gran merito di raccontare una storia con una lingua comune è stato di Federico Buffa, lo story-teller italiano per eccellenza, che ha scelto quasi a sorpresa Montagnana – neanche 10 mila abitanti e un’arena che solitamente ospita le commedie in dialetto veneto – per il debutto assoluto del suo “The Kobe Experiment”, omaggio al gigante della pallacanestro morto in un incidente aereo il 26 gennaio 2020, a soli 41 anni.

Perché a Montagnana? Buffa era passato di là nell’agosto scorso, con il suo “Italia Mundial”: chi c’era quella sera ancora si ricorda le lacrime di commozione scese grazie ai racconti su Zoff, Tardelli e Pablito. Ecco, di quel posto Buffa si è letteralmente innamorato a prima vista. «Qui ci porto il mio spettacolo su Kobe, in prima nazionale», aveva promesso. Promessa mantenuta. Ed ecco l’esperimento-Kobe: sei serate, ciascuna diversa dall’altra, perché in ogni uscita Buffa ha voluto scegliere capitoli diversi della vita di Kobe, e perché di fatto lo spettacolo è stato costruito ed è mutato nel corso della settimana, a cercare la perfezione del racconto, il pieno incontro del pubblico, la giusta successione di note.

Si è parlato poc’anzi di omaggio, ma guai a credere che Buffa abbia voluto descrivere un eroe o un mito: la narrazione ha oscillato con maestria tra la crudeltà quasi shakespeariana toccata al campione e l’ammirevole sete di conoscenza di Kobe, ma anche tra i tanti limiti, le imperfezioni, le cadute, le finali perse (2008, Boston Celtics su tutte), gli errori del cestista. Perfino attraverso i tradimenti compiuti, categoria che non appartiene in alcuna epopea alla figura dell’eroe: da quello alla moglie Vanessa – la violenza sessuale a una cameriera, sfociata in uno scandalo giudiziario – fino a quello che ha coinvolto Shaquille O’Neal. «Shaq aveva ragione», aveva affermato il Mamba a un giornalista, «in quei casi le donne vanno pagate». Lui, leader, aveva infranto la prima regola dello spogliatoio: quel che capita tra armadietti e docce, lì deve restare.

Ed è nel dipingere il riscatto di chi cade oltre ogni baratro che Buffa tocca le corde più profonde. Come nella scena – sì, “The Kobe Experiment” è un gran film – in cui Kobe Bryant diventa Black Mamba. Black Mamba, il serpente nero e letale – proprio come la sua pelle, proprio come la sua pericolosità con la palla in mano; Black Mamba, come la Sposa di “Kill Bill”, che muore e risorge per cercare vendetta – così anche lui, morto nell’anima e bramoso di rivalsa su tutto e su tutti. L’eroina di Tarantino dalla tuta gialla, gialla – guarda caso – come la maglia dei Lakers. Kobe studia per diventare un vero campione e non lascia nulla al caso: chiama persino John Williams, l’autore di colonne sonore intramontabili come quella di “Star Wars”, per chiedergli come si dirige un’orchestra, metafora della squadra. Dopo la catarsi (cambia anche il numero di maglia, da 8 a 24), arriveranno altri due anelli, e con essi pure due Olimpiadi.

C’è ovviamente molta Italia nel racconto di Buffa – da qui la spiegazione del trash-talking nella nostra lingua, non scontata per chi non conosce la biografia del 24 gialloviola: Kobe vive nel Belpaese dai 6 ai 13 anni, al seguito di papà Joe, che dopo dieci anni di Nba sbarca in Italia vestendo le canotte di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. In una delle serate di Montagnana, a tal proposito, è arrivato anche Gianfranco Sanesi, guardia classe ’54, una carriera a Rieti (vinse anche una Korac), compagno di squadra di Joe: nel suo racconto non è mancato il ricordo del piccolo Kobe, sempre pronto ad approfittare delle pause di riposo nelle partite del babbo per scendere sul parquet a fare qualche tiro.

A proposito di ospiti, tra il pubblico si sono visti non solo appassionati, ma anche big del basket: un nome su tutti, Raffaella Masciadri, quindici scudetti cuciti sul petto. E ora, che ne sarà del “The Kobe Experiment”? Riposerà per qualche tempo, come il buon vino, per maturare l’esperienza montagnanese e approdare nei teatri d’Italia.




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