Ivrea, San Savino, il patrono di una città che conobbe Ivrea 600 anni dopo la morte
IVREA. San Savino “patrono per caso”. A Ivrea infatti, il Santo giunse in modo alquanto avventuroso nel 956, ben seicento anni dopo la propria morte. A trasportarne in Canavese le spoglie mortali fu Corrado Conone, duca di Spoleto e parente di Arduino, che, non ritenendo opportuno trattenersi nel proprio ducato dove infuriava la peste, decise di tornare nella sua patria eporediese e, come narra il Robesti nelle sue Notizie Istoriche, per proteggere se stesso e la città di Ivrea dal temuto morbo, «volle portare con sé uno di quei molti santi corpi che arricchiscono la città di Spoleto».
Per timore di venire sorpreso a profanare una tomba in una delle chiese cittadine, decise di prelevare il corpo di San Savino che si trovava in una basilica a lui intitolata e distante due miglia dalla città. «Così, senza verun disturbo – ricorda Giovanni Benvenuti nella sua Istoria dell’antica città di Ivrea – aperta la tomba ove stavano le sacre spoglie del santo, prese la cassa e seco in Ivrea col maggior rispetto recolla». È sempre il Benvenuti a raccontare che, giunto il corteo ducale alle porte della città, San Savino provvide a guarire uno zoppo che, viste le sacre reliquie, gli si era raccomandato. La notizia fece immediatamente il giro di Ivrea e la gente mosse incontro al «sacro pegno che fu con solenne pompa portato nella cattedrale ove, invocato il santo con gran divozione e fede, questi rese immune la città dalla serpeggiante pestilenza». Fu così che il Santo vescovo e martire venne nominato principale protettore della città e le sue reliquie riposte in una cassa collocata all’interno di un’urna di marmo a sua volta posta sotto l’altar maggiore dove rimase fino al 1587.
Ritenuto il 24 gennaio il giorno esatto della traslazione delle reliquie, per molti anni si provvide a festeggiare il Santo in tale data, almeno fino alla metà del Settecento, quando il vescovo Michele Vittorio della Villa, «onde celebrare con maggior solennità la festa patronale e vedendo non potersi ciò eseguire al 24 gennaio, a motivo dei ghiacci e nevi che per solito ingombrano in tal tempo le strade», ottenne dalla Santa Sede il consenso per «trasferire la festa in tempo più comodo», il 7 luglio, appunto. Proprio all’anno in cui monsignor della Villa ottenne lo spostamento della data, il 1749, risale l’urna d’argento nella quale si conservano ancora oggi le reliquie di Savino. Tutta la città concorse, con generose offerte, alle spese per la sua realizzazione, in segno di riconoscenza al Santo per essere scampata ai disastri procurati da una terribile alluvione.
Oggi, come allora, l’urna viene portata «in solennissima processione, con solenne apparato, scielta musica e panagirico» attraverso tutta la città. Durante l’anno essa viene custodita in una teca protetta da una grata sopra l’altare di una cappella laterale all’interno del duomo, dedicata al Santo e affrescata dal pittore Carlo Cogrossi con la scena del martirio, in cui a Savino vengono mozzate le mani. Una scena che rimanda alla descrizione riportata da Francesco Carandini: «Venustiano, feroce esecutore degli editti contro i cristiani, fattoselo condurre innanzi, gli intimò di adorare certo suo idoletto di corallo, al che, essendosi quegli rifiutato spezzando l’idolo a terra, Venustiano gli fece troncare le mani».
Una curiosità? Oltre al teschio che i fedeli venerano nella nostra città, ve n’è un altro, che si vuole essere anch’esso quello di San Savino, conservato nella cattedrale di Fermo. Reliquia donata, pare, addirittura da Gregorio Magno. A Fermo si sostiene che Nicola Erioni, arcidiacono della chiesa metropolitana di Fermo ed eruditissimo cultore di storia fermana, vissuto nel XVIII secolo, avrebbe dimostrato essere quello fermano l'autentico. Due crani, allora? Non stupisce affatto: Cristoforo di Mitilene, a proposito del traffico di reliquie, prospero già nell’antichità, narrò che furono trovate 10 mani di San Procopio, 15 mandibole di San Teodoro e 4 teste di San Giorgio.FRANCO FARNÈ