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Sudan, la più grande tragedia umanitaria ignorata

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Dieci milioni di sfollati, milioni di morti, stragi che non trovano spazio nei grandi media: nell’indifferenza generale da oltre un anno si consuma la tragedia della guerra in Sudan.

L'articolo Sudan, la più grande tragedia umanitaria ignorata proviene da Globalist.it.

Globalist ne ha fatto un punto di onore – etico prim’ancora che professionale – e di linea editoriale, non nascondere i conflitti colpevolmente ignorati dalla comunicazione mainstream. Ce ne sono oltre 47 – più quelli coperti, bene o male mediaticamente, in Ucraina e Medio Oriente – attualmente in corso, a riflettori mediatici spenti e nel silenzio complice della comunità internazionali. Tra questi conflitti “dimenticati”, uno dei più terribili si svolge in Sudan

Radiografia di un’apocalisse dimenticata

Dieci milioni di sfollati, milioni di morti, stragi che non trovano spazio nei grandi media: nell’indifferenza generale da oltre un anno si consuma la tragedia della guerra in Sudan.

A ricostruire, con competenza e profonda capacità analitica, la tragedia del Sudan è Simona Ciaramitaro su Collettiva: […]”40 mila morti, più di 7 milioni di nuovi sfollati interni in poco più di un anno,1,9 milioni di persone in fuga oltre i confini, quasi 11 milioni di sudanesi sradicati dalle proprie abitazioni. Sono i numeri delle vittime dirette e indirette della guerra in Sudan iniziata a metà dell’aprile del 2023 e fatta di violenze inaudite, fosse comuni e fame che attanaglia uomini, donne e tanti bambini. Una guerra ignorata dalla maggior parte dei media e quindi dall’opinione pubblica. 

Una guerra che viene definita civile, ma che in realtà, come ci spiega il direttore della rivista Africa, Marco Trovato, vede combattimenti tra militari e i civili essere le vittime senza colpa. Una guerra che colpisce un Sudan da sempre martoriato e il giornalista esperto d’Africa ci aiuta a comprendere quanto sta accadendo ripercorrendo la storia di questo Paese grande circa cinque volte l’Italia.   

Posizione strategica

Trovato inizia col collocare il Paese sulla cartina geografica. “Il Sudan “può essere considerato una nazione cerniera tra il mondo arabo-islamico e l’Africa nera, perché è posto in una zona strategica tra l’Etiopia, il Sud Sudan, il Ciad, l’Egitto e l’Eritrea, e si affaccia sul Mar Rosso, con la capitale, Khartoum, creata alla confluenza del Nilo Bianco e Azzurro”.

Le sue dimensioni e la sua posizione lo hanno reso estremamente appetibile; quindi, nel corso dei secoli diversi popoli hanno cercato di contendersi il suo territorio, romani, greci, arabi, turchi, inglesi. Per le sue caratteristiche la popolazione sudanese è composita, “un frullato di usi e costumi del mondo arabo-islamico e del mondo dell’Africa nera. Prima dello scoppio della guerra, a Khartoum si poteva assistere a gare di lotta del popolo dei Nuba e, a poca distanza, ai dervisci che danzavano e pregavano in estasi. Due culture lontanissime che però si incontrano in questa parte dell’Africa. 

Tutto ciò ha reso il Sudan estremamente fragile fin dall’inizio della sua indipendenza dal dominio anglo-egiziano, nel 1956, “quando è stato subito attraversato da pulsioni indipendentiste e tensioni identitarie che hanno creato una serie di crisi e di conflitti. Basti pensare alla crisi nel Darfur scoppiata nel 2003, o a quella per il Sud Sudan divenuto poi indipendente. Possiamo dire che è un Paese che non ha conosciuto un giorno di pace”.

L’Autoritarismo di al-Bashir

Il potere politico di Khartoum ha risposto a queste fragilità sempre con il pugno di ferro, imponendo regimi basati su una retorica nazionalista anticoloniale e un uso strumentale della religione islamica. “Protagonista indiscusso di questo scenario politico – ci dice Trovato – è stato per 30 anni Omar al-Bashir, un colonnello salito al potere nel 1989 e che ha gestito in maniera molto autoritaria il Paese, sostenuto da un’eminenza grigia islamica, Hassan al-Turabi, che all’inizio degli anni ‘90 ha dirottato il Sudan verso posizioni fondamentaliste”.

Da non dimenticare che in quegli anni il Sudan ha dato ospitalità a leader jihadisti, allo stesso Bin Laden prima dell’undici settembre. “Tutto questo ha portato l’Occidente e in particolare gli Stati Uniti a inserire il Sudan nella cosiddetta black list degli Stati canaglia, quelli accusati di sostenere il terrorismo di matrice islamica – prosegue l’africanista –. L’embargo economico imposto dagli Stati Uniti ha avuto dei contraccolpi pesantissimi sull’economia sudanese, tanto che a un certo punto a Khartoum era impossibile utilizzare le carte di credito, le imprese non potevano fare bonifici e l’economia era pressoché paralizzata”.

La morsa economica e lo sguardo a Oriente 

Sono sempre però gli interessi economici dei singoli Stati a prevalere tanto che, come ci spiega Trovato, l’embargo americano trovava la sua eccezione nell’esportazione della gomma arabica, di cui il Sudan è il principale esportatore mondiale e che gli Stati Uniti consideravano materia primaria. “Per intenderci, senza gomma arabica non si potrebbero fare la Coca-Cola e la Pepsi, motivo per cui gli Usa hanno chiuso un occhio e pure l’altro pur di assicurarsi continuamente l’approvvigionamento di questo ingrediente. L’economia sudanese in crisi vede una forte inflazione, il crollo della moneta locale, un boom di disoccupazione giovanile”.

Il Paese africano ha come risorse naturali qualche riserva aurifera e il petrolio, che però si trova nel Sudan Meridionale, il quale però non ha infrastrutture e deve far transitare il greggio da oleodotti che passano dal Sudan. “L’embargo occidentale ha spinto Khartoum a guardare verso Oriente, tanto che i primi partner commerciali sono diventati Cina, Emirati Arabi, Turchia, India e Arabia”. 

Il colpo di stato del 2021

Il giornalista arriva così agli anni 2000, “quando le casse dello Stato si sono prosciugate al punto tale che il governo taglia i sussidi per prodotti alimentari, benzina e altri beni primari. Scoppiano quindi tumulti e manifestazioni, proteste che hanno dato forma a un malcontento diffuso nei confronti del regime di Omar al-Bashir sino ad arrivare nel 2019 a un colpo di Stato sostanzialmente militare. Ne è nata una stagione di negoziazione tra la società civile sudanese e gli uomini dell’esercito artefici di questo colpo di Stato e si è creato un governo di transizione che avrebbe dovuto portare il Sudan a elezioni democratiche”. 

Nel 2021, però, “i militari hanno mostrato il loro vero volto e hanno sostanzialmente sciolto il governo di transizione espellendo tutti i civili e tornando a prendere il controllo totale dei gangli economici e politici – prosegue Trovato –. Ci sono state nuove manifestazioni di massa represse nel sangue dagli stessi protagonisti che oggi si fanno la guerra. Quindi la rivoluzione sudanese, alimentata da grandi manifestazioni partecipate da tantissimi giovani che avevano accarezzato dopo decenni di dittatura l’idea di poter aspirare alle libertà individuali e ai valori di una democrazia, finisce col vedere calpestate queste speranze dai militari che non hanno voluto saperne di cedere il potere”.

La guerra dei due generali

La situazione precipita il 15 aprile del 2023. Il direttore di Africa racconta che “la capitale Khartoum viene svegliata dai rumori di artiglieria per un violento scontro tra due generali che detenevano il potere. Uno era il capo del governo di transizione, Abdel Fattah al-Burhan, e l’altro il generale Mohamed Hamdan Dagalo, responsabile degli eccidi in Darfur, a capo di una formazione paramilitare nota come Rfs che era stata creata dal vecchio regime per compiere quei lavori sporchi dei quali l’esercito non poteva macchiarsi”. 

Inizia così questa guerra che è riconducibile a una lotta di potere interna e per la quale “sostanzialmente non ci sono buoni e cattivi – afferma Trovato –, ma due generali che si contendono il potere e dietro di loro si sono ricollocate delle forze politiche ed economiche che hanno vasti interessi in Sudan: i russi della Wagner e gli Emirati Arabi che sostengono militarmente i paramilitari, poi abbiamo realtà come la Turchia e l’Iran, che stanno fornendo droni ed equipaggiamenti militari a entrambi gli schieramenti, e Stati Uniti, Arabia Saudita ed Egitto che sono più vicini all’esercito regolare, che però ha perso molte posizioni”.

Al momento non c’è nessuna delle due forze che sta prendendo il sopravvento sull’altra: “Regna una situazione di forte instabilità con violenze che vengono alimentate anche dal supporto esterno ancorché le origini del conflitto siano riconducibili alle lotte di potere di cui parlavo. Finora sono falliti i tentativi di piani di pace e di tregue portati avanti dai Paesi del Golfo, dall’Unione africana e da organizzazioni regionali africane”. 

I numeri di questa crisi umanitaria sono impressionanti, milioni di persone costrette a lasciare la propria casa, interi ospedali sono paralizzati e c’è una fetta di popolazione enorme, 25 milioni di persone, circa il 50 per cento della popolazione sudanese, che necessitano di aiuti alimentari “perché poi l’effetto devastante di questa crisi, oltre i morti, lo si sta avendo sull’economia ormai paralizzata”. 

Trovato ci ricorda le immagini – poche e perlopiù ignorate – che ci arrivano del Sudan: “Gran parte della popolazione vive di agricoltura, di sussistenza, ma da più di un anno la gente non può andare a coltivare i campi e quindi le immagini che filtrano da questo Paese sono immagini di una popolazione prostrata con corpi scheletrici che ricordano le terribili immagini della carestia degli anni ‘70”. 

L’Europa sta a guardare

“L’Europa ha avuto un rapporto sempre molto ambiguo con il Sudan, che è una sorta di corridoio dell’Africa nera che ha fatto sempre paura all’Europa, perché da lì transitavano e transitano ancora oggi decine di migliaia di migranti e quindi l’Europa, ossessionata dal falso pericolo dell’invasione, ha sempre investito sul settore sicuritario, fornendo sostegno economico soprattutto agli apparati di sicurezza con la speranza di blindare le frontiere –conclude il giornalista –. Questo ha fatto sì che l ‘apparato militare godesse di prosperità mentre ci siamo colpevolmente dimenticati della società civile che oggi è la vittima senza colpa di questa crisi che si protrae e di cui non si vede ancora la via d’uscita”. 

Così è. 

Un Rapporto di Amnesty International

Trascorso un anno dall’inizio del conflitto in Sudan tra le Forze armate sudanesi (Fas) e le Forze di supporto rapido (Fsr), un gruppo paramilitare, la risposta della comunità internazionale continua a essere tristemente inadeguata nonostante il numero delle vittime civili sia in aumento in tutto il paese. È quanto hanno dichiarato Amnesty International, Sudan Democracy First Group e International Film Festival.

“Da un anno, la popolazione sudanese sta subendo le conseguenze degli scontri tra Fas e Fsr ma è abbandonata e ignorata. L’azione diplomatica non ha posto fine alle violazioni, non ha protetto i civili, non è riuscita a far arrivare sufficienti aiuti umanitari e non ha chiamato i responsabili di crimini di guerra a rispondere delle loro azioni”, ha dichiarato Tigere Chagutah, direttore di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale.

“La comunità internazionale non sta esercitando sufficienti pressioni sulle parti in conflitto affinché cessino di violare i diritti umani delle persone finite in mezzo a questa guerra. In particolare, l’Unione africana non ha mostrato il livello di leadership richiesto e non ha preso iniziative concrete per rispondere alla dimensione e alla gravità del conflitto”, ha aggiunto Chagutah.

“Durante il suo vertice annuale di febbraio, il primo dallo scoppio del conflitto, l’Assemblea dei capi di stato e di governo dell’Unione africana non ha neanche messo in agenda, come punto a sé stante, la crisi in Sudan”, ha sottolineato Chagutah.

“C’è voluto quasi un anno perché il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adottasse una risoluzione per chiedere l’immediata cessazione delle ostilità e l’ingresso privo di ostacoli degli aiuti umanitari. Ma persino dopo quella risoluzione, i combattimenti sono proseguiti in tutto il Sudan e non è stata presa alcuna iniziativa per proteggere i civili”, ha proseguito Chagutah.

Nell’ottobre 2023 il Consiglio Onu dei diritti umani ha istituito una Missione di accertamento dei fatti, col mandato di indagare e accertare fatti e cause di fondo delle violazioni dei diritti umani commesse durante il conflitto.

“Nonostante il ruolo potenzialmente decisivo nel progredire verso l’individuazione delle responsabilità per le atrocità in corso in Sudan, la Missione non è in grado di adempiere in modo significativo al suo mandato, in quanto dev’essere ancora dotata di personale e fondi adeguati. Il mondo non può continuare a guardare dall’altra parte. Gli stati membri del Consiglio Onu dei diritti umani devono assicurare le risorse necessarie e dare pieno sostegno politico alla Missione e tenere i diritti umani in Sudan ai primi posti della loro agenda e di quelle di altri organi delle Nazioni Unite”, ha dichiarato Omayma Gutabi, direttore di Sudan Democracy First Group.

Una catastrofica crisi umanitaria

Nonostante molteplici dichiarazioni di cessate il fuoco, i combattimenti si stanno intensificando in tutto il Sudan. Sono stati uccisi oltre 14.700 civili, tanto in attacchi mirati quanto in bombardamenti indiscriminati. Le persone sfollate all’interno del paese sono circa 10,7 milioni, il più alto numero al mondo. Il 50 per cento dei bambini e delle bambine, almeno 14 milioni, ha bisogno di assistenza umanitaria.

Il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha dato l’allarme: la risposta umanitaria internazionale alla crisi in Sudan rimane tristemente inadeguata, nonostante le organizzazioni umanitarie denuncino una carestia in vista. Alla fine di febbraio, l’appello lanciato dalle Nazioni Unite era stato finanziato solo per il cinque per cento, il che pregiudica gravemente l’invio di aiuti e servizi di emergenza assolutamente necessari.

“I partner regionali e internazionali del Sudan devono premere sulle parti in conflitto affinché proteggano i civili e facciano entrare, senza ostacolarli, gli aiuti umanitari. Sollecitiamo l’immediato incremento degli aiuti in favore di coloro che hanno cercato riparo negli stati confinanti così come per gli sfollati interni, soprattutto per le donne e le bambine che sono a rischio di violenza sessuale”, ha proseguito Gutabi.

È il momento di porre fine all’impunità

Dal 2003 Amnesty International e altre organizzazioni hanno ripetutamente denunciato prove di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e altre gravi violazioni del diritto internazionale umanitario da parte delle forze governative: uccisioni illegali di civili, distruzioni illegali di proprietà civili, stupri di donne e ragazze, uso di armi chimiche.

“L’impunità dominante in Sudan ha dato ulteriore forza alle parti in conflitto e alle milizie loro alleate per continuare a prendere di mira i civili in violazione del diritto internazionale. I responsabili di tali crimini pensano di essere immuni dalle conseguenze delle loro azioni e la mancata azione della comunità internazionale sta rafforzando questa loro protezione”, ha commentato Chagutah.

“Chiediamo alle parti in conflitto in Sudan di cooperare pienamente con la Missione di accertamento dei fatti istituita dal Consiglio Onu dei diritti umani, e, agli stati confinanti, di sostenere e facilitare il lavoro di questo importante organismo”, ha concluso Chagulah.

Sudan, per non dimenticare.

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