Col mio amico Bruno Zanin tutto era cinema, anche camminare e arrabbiarsi
Bruno Zanin è morto. Titta di Amarcord vivrà per sempre. Invece non è vero, anche Bruno Zanin vivrà “per sempre” grazie ai miei film. E voi nemmeno vi immaginate di quanto io sia fiero di questo. Non molto tempo fa Bruno era venuto a trovarmi a Montignoso dove la mia famiglia ha una casa, lui e il suo inseparabile cagnolino bosniaco che aveva chiamato Musetto. Verso sera è capitata una cosa meravigliosa: Bruno si è arrabbiato con me davanti a mia madre, così, senza pudore, mi ha preso il mio panama e l’ha accartocciato come un bambino dispettoso, la mia colpa? Avevo dato qualcosa da mangiare a Musetto, qualcosa che Musetto forse non poteva mangiare, secondo Bruno. Mia mamma mi ha guardato con stupore e io le ho fatto l’occhiolino, sono andato in balcone e mi sono acceso una sigaretta, mi sono messo a ridere. Bruno stava imbronciato, poi è venuto a chiedermi scusa.
Fellini è uno dei registi che amo di più e il pensiero che Titta-Bruno si fosse arrabbiato con me (un segno di confidenza, affetto e amicizia) in realtà mi riempiva di orgoglio, mi ha fatto sentire ancora più vicino a lui. “Mamma, mamma, ti rendi conto? Lui è quello della scena della tabaccaia di Amarcord, lui è Titta, mi ha accartocciato il panama, non è stupendo?”. Per farsi perdonare di questo gesto sublime, il giorno dopo Bruno ha piantato nel mio giardino due fichi e un melograno. Era un uomo di terra, con due occhi caraibici, di un azzurro angelico e strafottente al tempo stesso. Si era rintanato da molti anni in montagna, lontano dal mondo del cinema che lo voleva sempre puntuale e a disposizione, quasi come un burattino al servizio di un regista non sempre geniale come Fellini.
Bruno era un anarchico, un uomo libero, un vagabondo, un viandante, un contadino, un montanaro, un reporter di guerra, uno scrittore (Nessuno dovrà saperlo, il suo libro sugli abusi subiti da piccolo). C’era anche un altro libro nel cassetto, un libro ribollente, fluviale, sconclusionato, un libro che aveva un titolo bellissimo: Puttana guerra (sulla guerra in Bosnia ed Erzegovina). Mio fratello Roberto avrebbe dovuto metterci mano per dare un ordine a tutti quei ricordi insanguinati, per asciugarli un po’. Non se ne fece più nulla, chissà ora che fine farà quel libro prezioso, forse la casa editrice Milieu riuscirà a recuperarlo, speriamo.
Bruno mi aveva scritto circa due mesi fa che aveva un tumore molto raro, gli risposi “come al solito ti complichi la vita” e lui “già”. Gli erano piaciuti molto i ritratti filmati che gli avevo fatto, li potete trovare su YouTube, uno in particolare, Un attore in fuga, era il suo ritorno sul set dopo molti anni. Poi ne ho fatti molti altri, appena ci si incontrava a Milano o a Montignoso, tiravo sempre fuori la videocamera e lo filmavo, era più forte di me e lui con generosità si concedeva. Certo, per un cinefilo come me c’era il fascino di posare gli occhi su quel volto fresco e “irraggiungibile” che aveva tanto stregato Federico Fellini, ma per me Bruno era Bruno, non solo il Titta di Amarcord, Bruno era un amico, uno scrittore, un monello che ne aveva combinate tante nella sua vita randagia, un uomo sempre innamorato, sempre alla ricerca di quella purezza che un prete gli aveva rubato, violando la sua innocenza.
Andare in giro con lui, camminare con lui, stare al suo fianco, alzarlo di peso come lui aveva tentato di fare con la tabaccaia felliniana, ridere e arrabbiarsi, cenare assieme, piantare alberi, camminare sulla sabbia al tramonto con lui, tutto era magico per me, tutto era cinema, movimento, in definitiva: vita, splendida e implacabile vita. Attaccava bottone con tutti, insaziabile, curioso di ogni vita, proprio come un vero scrittore deve esserlo. Nel campo della letteratura il suo grande padre spirituale era Raffaele La Capria, me ne parlava sempre con grande ammirazione e affetto, “Sono diventato scrittore grazie a Dudù” (Raffaele La Capria era Dudù per gli amici). Non solo Fellini, quindi.
Bruno era scappato di casa da giovane, era finito a fare collanine a Lipari, con i suoi occhi azzurri e la sua voglia di emozioni nascenti. Aveva prestato dei soldi a una donna di Roma, e così finì nella città eterna, si fece una passeggiata per Cinecittà con i figli di questa signora, si intrufolò per gioco in una fila di ragazzi che erano in attesa di un provino con Fellini, prese il posto di uno che non si era presentato, come un clandestino. Fellini era nervoso quel giorno, una indovina gli aveva predetto che sarebbe stato Titta a trovarlo, ma questo Titta non veniva mai, e lui provinava come un disperato tanti ragazzi senza mai esserne convinto, ed ecco che… quel giorno… Fellini nota un ragazzo con i capelli lunghi, un imbucato che quasi si nascondeva dietro gli altri, era appena entrato Titta e Fellini lo aveva subito capito, catapultato dall’isola di Lipari direttamente a Cinecittà, per un prestito fatto a una romana che era andata in vacanza nell’isola siciliana.
Che cosa vide Fellini in Bruno? Non lo so, non sono Fellini. Sono Ricky Farina. Vi posso dire che cosa ho visto io. Ho visto un amico, Titta è scomparso, e ho visto un amico. Inquieto, sempre sul precipizio della depressione e della libertà, un amico inseguito dai suoi fantasmi, in affanno, senza pace, in fuga da se stesso verso se stesso, alla ricerca di un’innocenza perduta quando era solo un fanciullo. Nessuno dovrà saperlo. Ora i suoi occhi caraibici sono chiusi per sempre. Puttana guerra. Puttana vita. E’ stato bello conoscerti e filmarti. Manchi anche al mio panama.
Vi lascio con l’ultimo film che abbiamo fatto assieme su una spiaggia libera della Versilia, la spiaggia libera, l’unica spiaggia che quelli come Bruno possono vivere. Io ho la tenda.
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