Il bivio riforme che separa sindaci e partiti
C’è un aneddoto della prima Repubblica, che rende bene il concetto: “Avete sentito bene quello che non ha detto? ”, chiese ai giornalisti un giorno il compianto Enzo Carra, portavoce di Arnaldo Forlani, onnipotente della Dc famoso per poter parlare ore senza dire nulla. “È nelle pause e nei silenzi che si celano le notizie…. ”.
Una lezione preziosa in politica e spesso utilissima: uno dei silenzi che parlano da soli è quello dell’11 luglio dell’Anci, l’associazione dei sindaci italiani, che non ha speso una parola sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio.
Ha parlato di scuola, sul rischio che non aprano i nidi in settembre. E basta. Ma come? Per anni, i sindaci di ogni colore, in testa quelli del Pd, hanno invocato questa riforma. Certo in diverse modalità.
«Noi – diceva Antonio Decaro, presidente dell’Anci – non vogliamo l’impunità ma confini precisi sulla responsabilità. Ogni giorno un sindaco deve decidere se firmare un atto rischiando l’abuso di ufficio, o se non firmarlo, rischiando l’omissione…».
Per carità, i primi cittadini non volevano che si arrivasse a quello che oggi viene bollata dalla sinistra come un “colpo di spugna”, inviso ai giudici.
Ma il più sincero fu Beppe Sala, quando disse che “per anni si è provato a riformare la legge senza mai riuscirci…” in risposta a chi gli chiedeva se fosse contrario all’abolizione del reato.
Dunque, ai sindaci di sinistra questa legge del centrodestra piace, ma non lo possono dire.
In gennaio, quando l’abolizione del reato fu approvato in commissione alla Camera, a salutarla quasi come una vittoria furono in tanti: dal milanese Sala a Dario Nardella di Firenze, da Matteo Ricci di Pesaro ad un sindaco campano, Vincenzo Guida, che si scagliò su Facebook contro il suo partito che aveva votato contro, «un esempio di quanto sia distante dalla realtà».
Insomma, è uno di quei casi in cui “l’avversario fa la tua riforma” – magari peggiorandola – ma mettendoti comunque in mora, spezzando così le ali dell’opposizione. E se l’Anci non spende una parola, il Pd è costretto a bocciare l’abolizione dell’abuso d’ufficio, per non farsi scavalcare dai grillini che sparano a palle incatenate in sintonia con i giudici, che non gradiscono sia tolto quello che chiamano un “reato spia”, un segnale di altre malefatte magari ben più gravi. E un’altra riforma sottratta dal centrodestra alla sinistra è il premierato, che la bicamerale di Massimo D’Alema nel 1997 proponeva come ipotesi primaria, anche se poi le fu preferito il semipresidenzialismo.
Fa effetto rileggere i testi dell’epoca: la norma prevedeva che il candidato della coalizione vincente fosse nominato primo ministro dal presidente della Repubblica ed entrasse in carica immediatamente dopo la proclamazione del risultato elettorale, senza nemmeno passare per il voto di fiducia.
Per certi versi, più hard della riforma Meloni. Non mancano analogie pure con l’Autonomia differenziata, cavalcata nel 2018 (ma con notevoli differenze) dalla sinistra e da governatori come Stefano Bonaccini, che oggi sposano il referendum per abolirla.
Ha buon gioco la destra quindi a usare la sinistra come testimonial delle sue riforme, indebolendo così il fronte avverso per affrontare meglio la guerra dei prossimi mesi. Tattica non banale, anche se Meloni dovrebbe ricordare che il premierato voluto da Berlusconi, nel 2006 fu bocciato al referendum dagli italiani…