Elezioni americane: Trump e la resistenza preventiva
Il primo incontro tivù tra Donald Trump e Joe Biden ha soltanto peggiorato le cose. Per i democratici, certo, ma ancor più per il clima sociale e politico degli Stati Uniti. Lo scontro del 27 giugno sulla Cnn s’è risolto in un trionfo per il candidato repubblicano: nei sondaggi 67 spettatori su cento l’hanno dato «vincente», e cinque su cento hanno dichiarato che i 90 minuti del duello sono bastati loro a far ribaltare il voto, passando da Biden a Trump. Un risultato così netto, e la mesta performance di un presidente uscente apparso confuso, fragile e assente, hanno precipitato nel panico i vertici del Partito. Il cambio in corsa del candidato, però, è difficile non soltanto perché al voto del 5 novembre mancano meno di quattro mesi, ma soprattutto per le irriducibili divisioni tra le anime dei democratici (si veda il riquadro a pagina 53) e per la sconfortante carenza di alternative.
Non bastasse l’inconsistenza dell’avversario, l’ultima spinta a favore di Trump è arrivata il primo luglio scordo dalla Corte suprema, dove sei giudici su nove hanno deciso che l’ex presidente gode di un’immunità giudiziaria parziale, sui suoi «atti ufficiali»: la sentenza frena il processo aperto in Georgia, dove Trump è accusato di aver cercato di falsare il voto del 2020. Ma potrebbe influire anche sul procedimento di Washington, dov’è imputato per aver sobillato l’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021, e su quello in Florida, dov’è accusato di aver trasferito documenti top secret dalla Casa Bianca alla sua casa di Mar-a-Lago. Il destino quasi segnato delle prossime presidenziali, però, sta velocemente avvelenando gli animi delle future opposizioni. E se i giudici stessi della Corte suprema ora sono nel mirino dell’ala più radicale del Partito democratico, tanto da rischiare l’impeachment annunciato dai due parlamentari della sinistra estrema Hakeem Jeffries e Alexandria Ocasio-Cortez, contro il presidente in pectore c’è chi già s’è messo a organizzare una «resistenza preventiva» che non promette nulla di buono. Anche in caso di ritiro di Biden dalla competizione - le voci vere o fatte circolare ad arte si moltiplicano - l’opposizione a Trump sarà comunque totale.
Gli annunci sono tanto diffusi, e forti, da far presagire che il clima potrebbe presto diventare incandescente, e visti i precedenti potrebbe scivolare verso lo scontro tra fazioni, una specie di guerra civile. In ampie fasce dell’opinione pubblica, del resto, l’opposizione a Trump ha caratteri meta-politici: quasi morali se non addirittura etici. Il candidato repubblicano, va detto, non fa nulla per ingraziarsi gli avversari, continua anzi a provocarli con il suo fraseggio «politically incorrect». Contro le «porte aperte» dei democratici, che dal 2021 avrebbero fatto entrare oltre 10 milioni di clandestini, ventila politiche di rimpatrio coattivo, che le organizzazioni anti-razziste bollano come «deportazioni fasciste». I media di sinistra gettano benzina sul fuoco: la rete Msnbc sostiene che Trump abbia in mente di costruire grandi campi di detenzione, sul modello dei dittatori cileni.
Così in giugno i rappresentanti di oltre 50 organizzazioni per i diritti degli immigrati si sono riuniti a Phoenix per «pianificare azioni di contrasto» contro il nemico Trump. Con proteste diffuse, anche poco pacifiche se necessario, e con migliaia di ricorsi legali già pronti a essere depositati nei tribunali. Anche le associazioni per i diritti stanno preparando reti di attivisti pronti a impegnarsi in cause e class action: enti come Democracy forward, nata dopo la prima vittoria di Trump nel 2016, o come l’American civil liberties union, si preparano a far muro contro ogni norma che possa restringere il diritto all’aborto, all’immigrazione, all’assistenza sanitaria, o contro il minimo attacco alla galassia Lgbtq+, o alle politiche ambientali di Biden.
Qualcosa di peggio rischia di accadere nelle università: contro le tante proteste filo-palestinesi nei campus, venate da anti-semitismo e da una sconcertante indulgenza verso i terroristi di Hamas, Trump ha annunciato che, se andrà al governo, «espellerà chiunque fiancheggi il jihadismo». La rete degli universitari di sinistra, dunque, sta già organizzando manifestazioni e occupazioni a tappeto. E anche il controverso movimento antirazzista Black Lives Matter, forte dei 100 milioni di dollari in contributi raccolti dal 2020, si prepara a tornare agli scontri di piazza al grido «Not my president», proprio come accadde dopo la prima elezione di Trump nel novembre 2016. I mass media progressisti accarezzano le inquietudini: il New York Times accusa Trump di «pianificare cambiamenti radicali» venati di autoritarismo se non «dittatoriali». La tv Democracy Now dice che Trump potrebbe «usare il Dipartimento di giustizia per vendicarsi dei suoi principali avversari». La rete attivista Indymedia sostiene che nei «campi di detenzione rischiano di finirci anche gli oppositori del futuro regime» e che Trump «spedirà l’esercito nelle grandi città e negli Stati governati dai democratici».
Così l’America si polarizza sempre più, e la sua metà nemica di Trump - alla ricerca di un leader - viene spinta verso nuovi beniamini estremisti. Tra loro spicca Ian Bassin, il capo dell’organizzazione Protect democracy che ha annunciato «azioni straordinarie di resistenza legale». Anche Bassin ama i toni apocalittici: «Trump» dice, «è un aspirante autocrate che va fermato a ogni costo». Altra bandiera dei «nuovi resistenti» è il governatore dem dello Stato di Washington, Jay Inslee. Il suo motto è: «Il Trump di oggi è un pericolo molto peggiore di quello che era quattro anni fa». Inslee ha annunciato che farà «resistenza» su tutto, e ha iniziato dall’aborto. Dato che la Corte suprema in giugno ha respinto un ricorso dei movimenti anti-abortisti, che puntava a bloccare la pillola mifepristone, molti democratici temono che Trump nel 2025 potrebbe limitarne l’uso. Così Inslee ha annunciato la sua «disobbedienza civile», e per le donne del suo Stato ha fatto scorte di mifepristone per anni. Sulla scia di Inslee, il governatore della California, Gavin Newsom, ha fondato la «Reproductive freedom alliance» cui aderiscono 23 governatori democratici. Anche la Rfa vuole difendere l’aborto, ma Newson dice che l’alleanza ha altri progetti contro Trump. Quali siano non l’ha ancora detto. Intanto il 5 novembre si avvicina. E anche per lui, come disse qualcuno in Italia, «resistere, resistere, resistere!».