Nel mondo (al contrario) di Elly lo stato di diritto non vale per Toti: “colpevole” di difendersi
L’idea che sia la magistratura a determinare le dimissioni di un rappresentante democraticamente eletto, brandendo nei suoi confronti la scure della carcerazione preventiva, dovrebbe far rabbrividire chiunque, soprattutto chi ha, o millanta, una formazione politica ispirata a democrazia e garantismo. Tuttavia, per la segretaria del Pd Elly Schlein, le dimissioni di Giovanni Toti, arrivate ottanta giorni dopo l’esecuzione nei suoi confronti di una ordinanza di custodia cautelare, sono da considerarsi una «decisione tardiva».
Ma andiamo con ordine: lo scorso 7 maggio, dopo quattro anni di indagini e a un mese esatto dalle elezioni Europee (vedi, alle volte, il caso!), il Presidente della Regione Liguria viene posto agli arresti domiciliari per vicende legate a finanziamenti ricevuti in campagna elettorale e a rapporti con imprenditori che, secondo la prospettazione accusatoria, ne avrebbero pilotato scelte e decisioni. Il Gip prima e il Tribunale del Riesame dopo, chiariscono, nero su bianco, che Toti non può tornare in libertà perché, nonostante le condotte contestate siano risalenti, potrebbe reiterarle in quanto ancora in carica alla guida della Giunta regionale. Toti, quindi, resta ai domiciliari perché ancora in carica; qualora si dimettesse, potremmo ragionare di rimetterlo in libertà, questo il succo.
Ora, lungi dal voler entrare nel merito delle contestazioni, su cui si pronuncerà un Tribunale all’esito di un giusto (si spera) processo, la questione è di metodo e investe il tema, sempre sul piatto ma mai risolto – perché a sinistra nessuno ha interesse a risolverlo – dei rapporti tra magistratura e politica. Ci troviamo di fronte al potere giudiziario che subordina apertamente la libertà di un cittadino eletto democraticamente alla circostanza che quest’ultimo rinunci alla carica che ricopre: se ti dimetti, puoi tornare alla tua vita, è il messaggio dei giudici a Toti. È lo status dell’indagato ad essere ostacolo alla sua libertà.
E siccome Toti non si dimette, dopo una nuova ordinanza di custodia cautelare notificata il 18 luglio, fonti della Procura lasciano trapelare l’intenzione dei pm di chiedere nei suoi confronti il giudizio immediato: insomma, un altro anno ai domiciliari, in attesa di giudizio, non glielo toglie nessuno. Mentre si consuma un simile indegno ricatto, che fa dubitare i più di vivere ancora in uno Stato di diritto, Elly Schlein riunisce tutti in piazza a Genova: «Una piazza meravigliosa, per il diritto al futuro della Liguria che non merita di essere tenuta ai domiciliari insieme al presidente Toti».
Al netto dello sciacallaggio politico, sport in cui la sinistra eccelle da sempre, è la malafede di cui è intrisa questa affermazione a lasciare senza parole: il problema, con buona pace della presunzione di non colpevolezza, sarebbe un indagato che si difende, non la magistratura che, forte di accuse mai passate da alcun vero vaglio processuale, pretende di sostituirsi alle scelte dei cittadini. Schlein dimentica che – nonostante quelli che lei in piazza ha definito “9 anni di malgoverno” – Giovanni Toti è stato votato e rivotato, convintamente, dai liguri.
E se oggi la sinistra ha qualche possibilità di mettere le mani sulla regione è solo grazie al provvidenziale intervento della magistratura. Tutto normale, vero? Alla segretaria e a chi ne asseconda le farneticazioni vale la pena di rivolgere solo una domanda: e se Toti, domani, venisse assolto?
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