Riforme, referendum ed elezioni: autunno di incognite per il governo
Più che un autunno caldo, si potrebbe preconizzare un autunno freddo, ovvero privo di sollievi e con poca luce a rischiarare l’orizzonte: se continua così infatti, è facile prevedere che il bouquet di riforme (Premierato, Autonomia e Giustizia) che la premier voleva sventolare come dono agli italiani e frutto del buon raccolto della sua legislatura, rischia di frangersi sugli scogli dei vari referendum in arrivo.
Per non dire di quell’onda gigante che potrebbe sommergere la testa dell’esecutivo a metà novembre: quella formata da tre voti regionali tutti in potenziale perdita, ovvero Liguria, Emilia Romagna e Umbria. Che possono trasformarsi – come ammesso dalla stampa più vicina al governo – in un test di mid-term pericoloso in caso di sconfitta.
Ma cogliamo fior da fiore: non è un mistero che da giorni sottotraccia si discuta se sia il caso di accelerare con le diverse letture parlamentari della riforma costituzionale, che introduce l’elezione diretta del premier.
Se dovesse andare male il referendum abrogativo, la premier avrebbe ben poche alternative oltre le conseguenti dimissioni. Significherebbe, apriti cielo, affrontare la campagna elettorale per le politiche con il fardello di una sconfitta epocale per chi ha puntato le sue carte su questa rivoluzione copernicana. Non un bel viatico per ottenere un secondo mandato dagli italiani.
Quindi il dilemma ora è se frenare e andarci piano, senza correre e quindi diluendo i vari passaggi nelle Camere, fino a fare coincidere la data del referendum sul premierato o con il voto delle politiche, per poter fare una campagna simultanea; o addirittura dopo.
Secondo fiore, quello all’occhiello di Matteo Salvini, l’Autonomia differenziata: cosa succederà dopo che Forza Italia si è messa di traverso?
E non alla leggera, ma con il suo potere locale (quello dei governatori come il calabrese Roberto Occhiuto, che ha previsto al sud una sconfitta 80 a 20 al referendum) e con il suo leader nazionale Antonio Tajani, che in consiglio dei ministri ha chiesto di frenare gli accordi con le Regioni del nord.
Due cose: o uno scontro aspro tra gli azzurri e una Lega intestardita a tirare dritto, scontro foriero di indebolimento progressivo del governo sovranista: che tra parentesi non sembra troppo gradito agli eredi Berlusconi.
Oppure un rallentamento di tutto il processo dell’Autonomia, con strascichi polemici e sicure rappresaglie del Carroccio.
E qui arriviamo al terzo fiore, quello che il 29 maggio si è appuntato al petto il ministro Nordio, ma che Berlusconi reclamava da decenni: la riforma dell’assetto della magistratura.
Probabile che il suo iter diventi l’oggetto della rappresaglia salviniana: il disegno di legge costituzionale giace in Commissione, dovrà subire i passaggi in Parlamento e potrebbe anch’esso essere oggetto di referendum nel 2026. Con il non trascurabile particolare di essere inviso alla potente categoria dei magistrati.
Ed ecco che le tre bandiere sventolate dai partiti di governo in vista delle elezioni europee del 9 giugno, potrebbero restare impantanate dal gioco di veti incrociati e dai fantasmi agitati dalle opposizioni, quei tre referendum tutti a rischio.
Visto infatti come andò nel 2006, quando venne bocciata la riforma Berlusconi e Calderoli sull’autonomia regionale e come è finito il referendum sulla riforma Renzi del 2016 che rovesciava l’assetto istituzionale.
Se poi in aggiunta si sommano i timori di quanto potrebbe succedere a metà novembre in un eventuale election day per i rinnovi delle giunte regionali di Liguria, Emilia Romagna e Umbria, si intravede all’orizzonte una foschia plumbea che potrebbe avvolgere governo e maggioranza: in Liguria, il centrodestra rischia di cadere anche per il fuoco amico di una eventuale lista Toti, tanto da non trovare ancora un candidato pronto a immolarsi; come in Liguria, anche in Emilia e Umbria potrebbero coagularsi due campi larghi del centrosinistra unito. E il rischio è di perdere.
E questo simpatico menù, va infine condito con una legge di bilancio magra e priva di risorse per tagli di tasse e pensioni; sotto stretto controllo di una Commissione Ue poco accondiscendente dopo il no di Meloni a von der Leyen.
Insomma, uno scenario da far impallidire i più ottimisti: per la premier e il suo governo, cominciano i problemi.