La psicanalista Becce sulla violenza a Muggia: «Abbiamo lasciato i giovani soli. Va rilanciato il loro desiderio»
MUGGIA Di chi è la colpa? Davanti a immagini come quelle che arrivano da Muggia – in particolare ai video dei pestaggi a pagamento fra ragazzi, poi pubblicati sui social network – scatta spesso, con un riflesso pavloviano, la caccia alle responsabilità. Dei genitori, delle istituzioni, o chi per loro. In realtà, la domanda appare fuorviante. Il disagio e la violenza giovanile – compresa quella dei cosiddetti “maranza”, subcultura nella quale si identificano molti dei ragazzi in questione – sono fenomeni complessi, irriducibili a un’unica causa. Perciò abbiamo chiesto a Lucia Becce – psicanalista e presidente di Telemaco Trieste, realtà impegnata nel supporto agli adolescenti – di aiutarci ad analizzarli.
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La violenza e gli adolescenti
Le notizie degli ultimi giorni non sembrano sorprendere Becce. «Da alcuni anni assistiamo a un aumento della violenza», afferma la psicanalista. In questo caso, non si parla di singoli episodi, quanto piuttosto di uno “stile di vita”, un modo d’essere che utilizza la violenza come veicolo d’espressione.
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Alla base, secondo Becce, ci sono le pulsioni tipiche della fase adolescenziale, di per sé non solo legittime ma anzi fondamentali per lo sviluppo della persona. «Il problema è che non stiamo più offrendo una cornice a queste pulsioni – spiega Becce – lasciando i ragazzi da soli». Prova ne è la scomparsa, additata dalla psicanalista, dei riti di passaggio fra una fase e un’altra della vita. «La transizione dall’infanzia all’adolescenza dovrebbe essere segnata da una serie di riti. Ora invece si è da subito scaraventati nel mondo». Il che spiegherebbe anche l’età molto giovane dei ragazzi, quasi tutti minori compresi fra i 12 e i 17 anni.
La mancanza degli strumenti
«Se non diamo strumenti adeguati ai ragazzi – insiste Becce – loro non hanno modo di affrontare le proprie pulsioni che con l’attacco e con la difesa». Cioè aggregandosi nei modi e nelle forme che si stanno vedendo. Da questo punto di vista, nel ragionamento di Becce, «puntare il dito contro i genitori dei ragazzi è un modo per deresponsabilizzare la comunità». Perché è quest’ultima che deve farsi carico di offrire ai giovani gli strumenti necessari. «È la comunità che educa», rimarca Becce.
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Al pari dei genitori, anche i social network costituiscono solo uno dei tanti fattori in gioco: «Lo spazio virtuale è fatto di molte fantasie e molte paure, oltre ad essere poco controllato. Dovrebbero esserci spazi alternativi e più condivisi».
La necessità di spazi alternativi
E così si ritorna al punto iniziale. «Nel video delle ragazze vedo un disperato tentativo di aggregazione. Una supplenza di ciò che evidentemente non c’è, di uno spazio aggregativo che manca». Becce fa l’esempio dello sport, in cui una quota di violenza è inserita in un contesto capace di incanalarla e di renderla feconda.
Ma il ragionamento della psicanalista va oltre. Perché spesso non sono le strutture a mancare, quanto il desiderio da parte di chi dovrebbe utilizzarle, cioè i ragazzi. «Dovrebbe esserci un rilancio del desiderio. Dovremmo dire ai ragazzi: questa è la risposta a quello che cerchi e che non sai ancora. Non farlo perché ti obbligo, ma perché è lì che troverai la risposta».