Michele Mari e il potere degli oggetti che riscattano una vita da eremita
Quando si comincerà a stabilire un canone della letteratura italiana tra XX e XXI secolo, Michele Mari avrà certamente un suo posto, anche se non appartiene alla letteratura che si suole definire mainstream. Scrittura lessicalmente ricchissima, fortissime connotazioni letterarie, amore per gli sconfinamenti nel fantastico, nel grottesco, nell’irrealistico. È alla sua terza finale del Campiello, con “Locus desperatus”, libro estremamente personale.
Cominciamo dal titolo, che è solo apparentemente negativo.
«La vicenda comincia con una croce che viene fatta col gesso sulla porta di casa del narratore, che interpreta questa croce come una maledizione, una minaccia. Un decreto di espulsione da casa sua, da tutte le sue amate cose, le sue collezioni. È minacciato, ma si sente nel giusto perché il male è fuori e in ciò che aggredisce. Invece, a un certo punto dell’indagine scopre che quella croce potrebbe essere in realtà una “crux desperationis”, cioè il segno con cui i filologi classici indicavano un brano testuale corrotto e confuso, illeggibile e insensato. Il “locus desperatus” è dunque una porzione di testo impazzita. Per il narratore ne discende che quel male che pensava esterno, potrebbe invece essere interno, dipendere dalla sua vita passata sempre fuggendo, nascondendosi.
Il personaggio sembra alla fine propendere per questa seconda ipotesi e salvarsi però.
«È un’ipotesi che ho lasciato viva senza risolverla poi narrativamente, come mi è capitato di fare in altri miei libri. Il personaggio a un certo punto prende atto di questa possibilità. Dire, quasi orgogliosamente, “va bene, la mia casa sarà un locus desperatus. Ho vissuto come un eremita, come un disgraziato tutta la vita, però qui sto e qui voglio rimanere”. E quindi allestisce una difesa, in parte per proteggere alcune cose, le più fragili, in parte viceversa, servendosi delle sue stesse cose, soprattutto quelle che crede dotate di poteri magici, per combattere con lui. E sembra nelle ultime pagine che l’esorcismo sia riuscito».
Il pensiero magico è molto presente nei suoi libri.
«Fa parte della mia personalità, della mia visione del mondo. Forse perché non essendo credente, da qualche parte l’esoterico e il trascendente ho dovuto farli entrare. Sono superstizioso, molto legato alle mitologie, agli arcani, alle leggende. Il punto di vista con cui ho sempre raccontato le mie storie, fondamentalmente è quello di un uomo primitivo, di un bambino».
Un’altra cosa che compare spesso nei suoi libri è la metamorfosi. Che ruolo ha in questo libro?
«Positivo, spettacolare, carnevalesco, ma in quanto implica trasformazione, sorpresa, spiazzamento ha anche una componente di angoscia, di terrore. Come negli incubi, come nei sogni, quando le persone si trasformano, le facce cambiano, tutto diventa qualcos’altro, si perdono le certezze, si perde la fiducia nel genere umano. E non è un caso che in questo libro, come in tanti miei altri, soprattutto in “Leggenda privata”, abbia un suo spazio il tema dell’ultracorpo».
Gli oggetti che sono protagonisti assoluti di “Locus desperatus” sono proprio i suoi oggetti. Come mai?
«Ho preferito usare i miei proprio perché sapevo esattamente che tipo di temperatura emotiva avrebbero suscitato. Ricostruire in laboratorio un’altra affezione per altre categorie di oggetti sarebbe stato più rischioso, più faticoso, diseconomico. Quindi mi è sembrato più logico e più divertente e anche più liberatorio partire dai miei oggetti, che in buona parte erano stati anche resi pubblici, fotografati in un libro precedente che si intitola “Asterusher”».
Ma in questo caso si animano, diventano personaggi.
«È stata una tentazione ricorrente quella di animare le cose, renderle appunto personaggi. Forse perché non mi sono mai troppo impegnato sul fronte della analisi psicologica dei personaggi, mi è venuto spontaneo caricare di un minimo di coscienza e di anima gli oggetti che li circondavano. L’ho fatto per esempio in libri come “Tutto il ferro della Tour Eiffel”. Nel caso di “Locus desperatus” avrei quasi voluto che ci fossero solo oggetti che, come in una fiaba, si ribellano a una minaccia dall’esterno, però poi mi sembrava una cosa un po’ troppo astratta e quindi un personaggio narratore l’ho inserito, anche se non ha nome, non ha famiglia, non ha relazioni sociali».
Terzo Campiello: impressioni?
«Mi fa un po’ sorridere, ma anche mi immalinconisce, constatare che nel 1990 ero il più giovane della cinquina e adesso sono il più anziano. Mi sembra di essere un po’ come il Tenente Drogo di Buzzati che arriva giovane e poi in un batter d’occhio si ritrova vecchio». —