Beetlejuice Bettlejuice, un filmaccio maldestro e malriuscito apre il Festival di Venezia. Ma Michael Keaton è sempre saettante
Una delle più grandi torture al cinema è essere obbligati a vedere un sequel. Tortura ancor più grande è vedere Beetlejuice Beetlejuice, film d’apertura Fuori Concorsoal Festival di Venezia, sequel di Beetlejuice (1988). Certo, Tim Burton, Monica Bellucci, Winona Ryder e Jenna Ortega – tra gli altri – sul red carpet del festival è colpo mediatico da maestri. Ma è altrettanto certo che Beetlejuice Bettlejuice è un filmaccio maldestro e malriuscito, in una sola parola: terrificante. Se, come ha spiegato il presidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco, “abbiamo (come Biennale ndr) la responsabilità civile, poetica e politica della bellezza” allora con il nuovo stracotto film di Burton, messo addirittura in apertura di festival, dobbiamo chiamare un avvocato e imbracciare il codice della bellezza.
Difficile rintracciare anche solo un’inquadratura salvabile di questo materiale retrò, assemblato alla bell’e meglio, farcito di miseri stereotipi, patetiche autocitazioni, trame e sottotrame appiccicate con lo scotch. Intanto ricordiamo che Burton avrebbe voluto chiudere la carriera con Dumbo (film assai apprezzabile e apprezzato), ma che spinto da una “ritrovata creatività” sul set della serie Netflix, Mercoledì (da qui l’inutile protesi in Beetlejuice Beetlejuice di una insipidissima Ortega) avrebbe dato mandato (per delinquere) agli sceneggiatori della serie Alfred Gough e Miles Millar di ampliare il “suo” successo targato Warner, Beetlejuice.
Ebbene l’estenuante pasticciaccio partorito da Millar e Gough vuole che la matura ma ancora dark e ansiogena Lydia Deetz (Rider), protagonista ragazzina nell’88 come figlia dei nuovi proprietari della casa infestata a Winter River nel Connecticut, ora conduca un programma proprio sulle “ghost house” e che durante una diretta intraveda la sagome del vecchio Beetlejuice tra il pubblico. Preludio nefasto dell’annuncio immediato della morte di suo padre in un incidente aereo. Si riuniscono così nuovamente tre generazioni dei Deetz nella loro vecchia casa listata a lutto (un enorme telone nero di tulle, sic): mamma Delia (la Catherine O’Hara di Mamma ho perso l’aereo) oggi scoppiata artista contemporanea; Lydia (Rider) alle prese con un untuoso e ipocrita compagno tuttofare con lei solo per arricchirsi; e la giovane Astrid (Ortega), eco femminista intubata in un college d’epoca prestigioso.
Ovvio che il ritorno all’ovile scatenerà e solleticherà il ritorno del cosiddetto, all’italiana, “spiritello porcello”, quel Beetlejuice (Michael Keaton sempre saettante, va detto) in completo juventino e macabri poteri speciali tra dimensione dei vivi e dei morti, nuovamente intento a sposare Lydia. Sempre nella dimensione cadaverica si enumerano le sottotrame della Bellucci, tal Delores, vecchia sposa che Beetlejuice aveva fatto a pezzi ma tornata in vita, gambe, braccia e viso graffettati, proprio per ucciderlo; il detective fantasma ed ex attore interpretato da William Dafoe; il ragazzino morto che legge Dostoevskij su un albero e vuole tornare nel mondo dei vivi e di cui si innamora Astrid.
Beetlejuice Beetlejuice ha la grande pecca di non avere nulla di visionario, eccentrico, impellente da raccontare e mostrare dopo 36 anni. E quando mostra qualcosa (il corridoio espressionista è da plotone d’esecuzione), quando si inabissa nel cosiddetto universo burtoniano, finisce nelle pastoie di un’animazione di maniera, spuria e rimasticata, che non pungerebbe (ricordiamo che Beetlejuice è un personaggio politicamente scorretto) nemmeno il fan più devoto. Inoltre, l’elastico temporale e narrativo tra reale e fantastico, tra umani e mostri, tra aldilà e aldiquà, è gestito in maniera distratta e farraginosa, con una preponderanza per un aldiquà pretestuosamente sopra le righe e allo stesso tempo bisognoso di richiamare artificiosamente i fan della Ortega con la pesante querula sottotrama dello scontro generazionale genitori/figli. Infine, il trattamento che Burton riserva alla neo compagna Bellucci è francamente imbarazzante, spesso inquadrata a mezzo busto e con una reiterata carrellata a precedere molto punitiva. I musetti e bronci della Ryder che funzionavano quando aveva vent’anni oggi a 52 paiono una punizione per lo spettatore. Uscire vivi da questo film è un’impresa per pochi. Venezia non lo merita. Avanti possibilmente qualcos’altro. Tim Burton, con tutto il rispetto, è ai titoli di coda.
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